IL CANE
Il cane è il miglior amico dell’uomo, un fedele alleato al suo servizio. La sua funzione è importantissima: è sempre al fianco del padrone, lo protegge e ne esegue i compiti. E’ quasi certamente il più intelligente tra gli animali della fattoria, oltre che il più responsabile. L’importanza del cane nelle masserie e nelle case faetane è, e soprattutto è stato, fondamentale per mille aspetti, ma su tutti la sicurezza della casa, della corte e degli animali. Molti erano i tipi di cani adatti alla vita del faetano: il cane che viveva in casa, quello che viveva nell’aia e quello che viveva con gli animali. Il cane che viveva in casa era di taglia media, adatto alla famiglia e agli ambienti domestici, pratico del contatto con la gente (anche estranei) e sopratutto appassionato e docile con i bimbi e gli anziani: mai comunque sprovveduto e sempre attento ai rumori esterni e agli odori “non familiari”. Poi c’èra il cane che viveva nell’aia, che conosceva il perimetro, i rumori ed gli odori che questo racchiudeva: un cane vigile, che avesse una buona voce da avvisare l’agricoltore in ogni momento del giorno (e della notte). Un cane resistente a tutte le stagioni, che non temeva la pioggia, il caldo o la neve, e che fosse un infaticabile guardiano. Un cane che seguiva fedelmente l’agricoltore nei suoi lavori giornalieri. Infine c’èra il cane che viveva con gli animali, dotato di una discreta rusticità, e adatto più alla vita nelle stalle e nei recinti che assieme alle persone. Un cane che si sentisse responsabile delle greggi, rispettoso dei piccoli animali e non timoroso di fronte a quelli più grandi e robusti di lui. I faetani sono stati pastori anche grazie all’intesa tra uomo e cane: con solo due o tre cani era possibile governare un gregge di cento pecore. Il cane stesso riceveva dei vantaggi: cibo e un rifugio sicuro per sé e per i suoi cuccioli.
Principale caratteristica distintiva del cane è ilsenso dell’olfatto, dovuto alla sua innata attività di cacciatore. Molti faetani amavano l’arte venatoria e quindi tenevano anche cani da caccia.
IL GATTO
Nei tempi passati ogni casa faetana possedeva almeno un gatto, utile per tenere alla larga i topi dalle case e dalle stalle in modo da proteggere le granaglie. Quantità di cibo attiravano eserciti di piccoli roditori come i ratti, animali capaci di scalare pareti praticamente lisce e di infilarsi in pertugi strettissimi. Era impossibile per i faetani sperare di vincere una guerra contro un simile nemico. Ma loro alleato era il gatto, cioè un animale selvatico abilissimo nella caccia che non verrà mai addomesticato del tutto ma che instaurerà invece con l’uomo un rapporto di mutuo tornaconto. Accanto agli uomini i gatti erano difesi da predatori più grandi e avevano cibo a disposizione, e gli uomini vedevano le proprie case pattugliate da vere e proprie macchine contro i roditori:uscivano ed entravano dalle case dei propri padroni attraverso un foro nel muro della casa o nella porta stessa. Indubbiamente era un animale di grande compagnia, in grado di restare autonomo e dotato di un’intelligenza scattante e dinamica. Sempre molto sveglio e dall’istinto del predatore, sinuoso e cacciatore, pur dando prova di grande affetto, non era mai del tutto sottomesso al suo padrone.
Predatore crepuscolare, il gatto possiede dei sensi molto sviluppati. Percepisce il mondo diversamente dagli esseri umani, è forse per questo che gli vengono associati dei poteri soprannaturali. Esistono diverse storie che raccontano come dei gatti hanno predetto dei terremoti o altre catastrofi, scappando prima del fenomeno. Il gatto è un animale territoriale. Il territorio del gatto ha un raggio attorno alla sua dimora di almeno 5 chilometri. Il territorio viene delimitato emettendo i feromoni. L’interazione con gli altri gatti viene centrata sulla relazione con il territorio. La memoria del territorio viene costruita additivamente, impara quanto viene “aggiunto” al territorio, ma non si accorge di quanto viene tolto. Ad esempio, un gatto ritornerà continuamente a controllare la tana di un topo che ha catturato, anche se sa che questa è vuota.
LA MUCCA
Nelle masserie o nelle stalle del paese le mucche venivano allevate, a volte in gran numero, come indispensabilifornitori di latte e carne.
La stalla dei contadini si trovava al piano terreno, era in genere realizzata in muratura; i piani superiori erano destinati ad abitazione e fienile; alcuni disponevano di edifici separati per l’abitazione e per le attività agricole.
L’alimentazione della mucca varia a seconda delle stagioni: in inverno-autunno si ciba di fieno e foraggio concentrato e in primavera-estate dell’erba di erba e foraggio.
Alcuni le portavano al pascolo quando il tempo permetteva, altri le tenevano più che altro nelle grandi stalle anche in primavera, accanto alla mangiatoia.
Talvolta assieme alle mucche era presente anche un bue (che poteva servire come animale da tiro) o un toro che accoppiandosi alla mucca la ingravidava; la mucca partoriva i vitelli che allattava.
La mungitura una volta veniva fatta a mano, oggi si usano le macchine. Con il latte di mucca i nostri antenati ricavavano forme di formaggio fresco, ricotta, mozzarelle, caciocavalli. Oggi solo alcuni contadini nella propria azienda allevano mucche per vendere il latte e i suoi derivati.
L’impegno costante del contadino, in ciascun giorno, era la cura degli animali. Egli si alzava di buonora e si recava subito nella stalla dei bovini per accudirli.
Nel frattempo che gli animali mangiavano, il contadino si dedicava alla pulizia: il contadino sistemava la lettiera, toglieva lo sterco e aggiungeva altra paglia. La pulizia della stalla non rappresentava solamente una fatica poiché il letame costituiva una risorsa preziosa: sparso sui prati e nei campi svolgeva un’indispensabile funzione fertilizzante: lo portava in campagna in cesti di vitalbina con il mulo.
Al termine, se la stalla non era attrezzata di abbeveratoi, conduceva gli animali alla fonte per abbeverarli; d’inverno, quando l’acqua gelava, egli aveva cura di riempire dei recipienti sistemati nella stessa stalla e, poi, con dei secchi porgeva da bere ad ognuna delle sue bestie.
La stalla in genere aveva solo una porta d’accesso collegata da un lungo corridoio infossato ai bordi, per consentire lo scolo dell’urina, che, attraverso dei fori nella parete, veniva convogliata all’esterno.
Le mucche andavano munte una volta al giorno, un tempo si mungeva con le mani, ora con la mungitrice. La mungitura infatti era tra i primi compiti del bovaro quando la mattina verso le quattro, o anche prima, si apprestava a rigovernare la stalla; fornito di capaci secchi, mungeva seduto su un piccolo sgabello, consistente in un sedile tondeggiante e tre corte gambe leggermente divaricate, che permettevano la sua veloce rimozione, in caso il pesante animale scartasse per opporre resistenza.
Con il latte, dopo averlo riscaldato, subito faceva la quagliata con cui fare il formaggio in inverno e il caciocavallo in primavera; con il siero faceva la ricotta
I contadini che decidevano di allevare un toro da riproduzione dovevano separare e rinforzare parte della stalla poiché il toro era focoso e pericoloso e ad esso, dietro compenso, i contadini portavano le vacche alla fecondazione.
Ogni mucca veniva assicurata con una catena di due metri circa, con un anello centrale da fissare alla corda della greppia e tre anelli ad un’estremità, per avere tre misure diverse in cui inserire il ferretto posto all’altra estremità, dopo aver fatto passare la catena attorno al collo dell’animale. La stalla era provvista di mangiatoia lunga circa due metri alta e larga 50-60 centimetri, in cui veniva messo il fieno stivato nel fienile e di una rastrelliera, sempre con fieno, costituita da una serie di sbarre trasversali distanziate per permettere alle mucche di introdurvi il muso.
PECORE E CAPRE
Pecore e capre sono animali da latte molto presenti nella Faeto di una volta. A quei tempi parecchi faetani erano pastori di capre e pecore che portavano al pascolo in primavera ma anche in inverno con la neve: le mandrie di pecore venivano portate al pascolo anche in inverno per mantenere costante la loro abitudine alla luce.
Tra le famiglie che possedevano molte capre c’erano Strazzúlle, Furbíne. Un tempo a Faeto ogni famiglia era provvista di una o due capre per l’ottimo latte e per la possibilità di vendere un capretto, per cui c’era in paese l’abitudine di affidare la propria capra a qualcuno che la portasse al pascolo per poi riportarla al padrone.
Parecchi erano anche i faetani che possedevano pecore per proprio conto oppure le accudivano e le portavano al pascolo per conto di terzi che le avevano comprate e con cui avevano preso accordi su come dividersi l’utile ricavato.
L’utile consisteva nel latte con cui produrre forme di formaggio, ricotta, e nella lana. La pecora veniva tosata una volta l’anno, in primavera e una volta lavata e ben filata, la lana serviva per fare indumenti caldi o venduta.
L’utile invece ricavato dall’allevamento delle capre consisteva soprattutto nel latte, anche se di scarsa produzione giornaliera. Il latte di capra, ottimo da bere, veniva utilizzato per fare formaggi freschi, stagionati, per fare ricotte, (ogni due giorni perché appunto la capra produce poco latte). La carne di capra è buonissima, delicata nel capretto, saporita nell’animale adulto, comunque meno grassa di quella dell’agnellino e della pecora: in mille preparazioni, dall’arrosto ai ragù, la carne di capretto era considerata una prelibatezza nella dieta faetana. Infine della capra venivano utilizzate le pelli con i capelli e si utilizzava lo stomaco per il caglio. La capra rimaneva comunque la soluzione più ecologica per ripulire campi abbandonati o per mantenere puliti argini e fossi in quanto si arrampicava dappertutto e dove passava ripuliva ogni cosa.
Per non lasciare che i capri ingravidassero le capre gli si metteva un grembiule di tela.
Le pecore vivevano in gregge, sorvegliate dal pastore e dal suo cane. Il maschio della pecora è chiamato ariete o montone e anche ad esso veniva apposto un grembiule di tela per evitare l’ingravidamento della pecora in tempi non programmati. La pecora dimostra una poca affezione verso i piccoli. Per la particolare struttura del sistema nervoso la pecora è molto timida. Teme l’umidità dell’aria, del suolo e degli alimenti. Si nutre di erba, foglie, ortaggi, tuberi, radici carnose, sarmenti di vite, granaglie, farinacei e crusche.
ANIMALI CON LE ALI
Tra i volatili della fauna faetana in primis c’è la gallina. Il suo raspare nell’aia è un simbolo della vita agreste che mette il buon umore e ci rallegra la giornata. Questi simpatici uccelli domestici che raspano e beccano sono due protagonisti importanti della campagna faetana.
Il maschio riproduttore è contraddistinto da un tronco robusto, ali corte, cresta appariscente e bargigli ai lati del capo e del becco, non fa le uova, queste sono prodotte dalla gallina. Il regime alimentare delle galline è sostanzialmente granivoro: sono tradizionalmente alimentate con mais, orzo, avena e frumento, se lasciate libere beccano con piacere anche erba e insetti. Si suddividono in razze che differiscono tra loro per dimensione, colore e forma, tutte allevate per le uova e per la carne: la razza più diffusa in paese era la padovana, grande, sicuramente una gallina da carne; la livornese, più razza da uova, con una struttura leggera e poco adiposa; la ovaiola, più piccola della padovana.
Quando in primavera il gallo si accoppia con la gallina, questa depone delle uova fecondate nel suo nido e, se nessuno la infastidisce dopo averne deposte una quindicina, inizia a covarle cioè a tenerle calde per tre settimane. Una gallina che cova prende il nome di chioccia. Questo avviene solamente quando il gallo ha fecondato l’uovo, cioè quando il gallo ha introdotto uno spermatozoo nell’uovo femminile.
L’uovo fresco è ottimo a frittata e sbattuto fa da ricostituente. Nei tempi passati a Faeto alle puerpere la comare portava una gallina da fare in brodo con i tagliolini perché il brodo aumenta la secrezione lattea.
Il gallo è il re del pollaio! Un sovrano dispotico e geloso: meglio che nessun altro gallo metta il becco nel suo pollaio! All’alba spacca i timpani con il suo canto per rammentare a tutti che è il numero uno, il maschio più potente di tutto il pollaio.
Oltre la gallina, possiamo trovare l’oca, i tacchini, le cui femmine sono ottime covatrici e le loro uova erano buone nelle frittate o per fare ripieni; le faraone (dette gallinelle), le Anatre Mute(dette nane) con la loro carne impareggiabile e che sapevano tenere a bada le erbe di qualsiasi prato.
Anche la carne di piccione era molto prelibata perché più leggera: si usava portare brodo di piccione in visita agli ammalati; i piccioni più piccoli si prestavano per la preparazione di sughi e di arrosti.
BESTIE DA SOMA
Le bestie da soma a Faeto sono state gli animali delle persone povere, dei contadini, di intere famiglie.
I contadini per il loro lavoro si servivano di muli, bardotti, asini. Qualche faetano possedeva uno o due muli o giumente, altri, i più, possedevano solo una bestia da soma e quando dovevano arare chiedevano in prestito l’altra bestia per fare la pariglia. Convivevano con loro nella buona e cattiva sorte. Le stalle comunicavano con le case e, quando queste erano degli angusti bassi, gli asini o i muli trovavano posto in angoli, delimitati da divisori di legno. Lasciati allo stato brado al pascolo, ruminavano le erbe più adatte, preferendo la lupinella selvatica. Le bestie da soma bevevano l’acqua chiara di sorgente che i contadini trovavano lungo la strada per andare in campagna e amavano strofinarsi contro i tronchi degli alberi. Nella stalla, all’ora del pasto raspavano ad intervalli il pavimento, allungavano il collo e guardavano intorno, impazienti. Ci pensava il padrone ad ammannire l’avena, la paglia, le fave. Il mulo aveva per padre l’asino e la giumenta per madre, mentre il bardotto per padre il cavallo e l’asina per madre. Tra i due il primo era il classico animale da soma, infecondo, più resistente del cavallo, adatto a percorrere viottoli impervi, le mulattiere. La mula era più adatta alla cavalcatura e trainava il calesse, all’epoca era l’unico mezzo di trasporto oltre al mulo. A Faeto i muli furono impiegati come forza motrice per aratri, veniva adoperato per il tiro, per la sella e soprattutto per il basto.
Il cavallo a Faeto serviva come mezzo per riprodurre le giumente e continuarne l’allevamento.
Anche l’asino figliava i puledri. Con l’asino si andava a prendere l’acqua alla fontana e, essendo un animale mansueto, aiutava le donne a portare i panni da lavare al ruscello; anche i bambini dopo scuola andavano con l’asino in campagna.
A Faeto l’asino non era usato come animale da tiro, solo qualcuno, non avendo disponibilità di mulo, lo metteva ad arare i terreni.
L’asino domestico è un animale forte e intelligente, molto apprezzato per il suo carattere mite, per questo è un ottimo animale da compagnia. Frugale, robusto, docile e paziente, l’asino è’ un animale poco esigente, si nutre di fieno di prato naturale, non disdegna fiori, gemme, frutti, foraggio, crusca e carrube. L’asino, se ben trattato, conserva il suo vigore fino ad un’età avanzata, che si aggira intorno ai 25 anni o poco più.
L’asino ha sempre rappresentato la vita contadina e i suoi disagi. Il rendimento lavorativo, specie se paragonato alle sue dimensioni, all’alimentazione generalmente scarsa quantitativamente e di poco significato nutritivo, all’allevamento quasi sempre molto trascurato, è da considerare notevole e superiore a quello del cavallo, anche per la maggiore resistenza. Spesso però a causa della sua natura forte e robusta ma anche sobria e frugale, rispetto ad altri animali domestici, delle sue doti di adattamento alla fatica e di sopportazione.
MAIALE
Il Maiale è stato senza dubbio un animale di grande ricchezza per i faetani perché da esso si ricavava la provvista di cibo per un intero anno. Un tempo ogni famiglia possedeva due o tre maiali, comprati porcelli alle fiere e poi tenuti all’ingrasso nelle masserie e negli stabbioli del paese.
Trascorrevano gran parte del loro tempo mangiando, bevendo edormendo. Mangiavano di tutto: patate, barbabietole, mais, farina, siero del latte e frugavano nel terreno alla ricerca di carote e ghiande di cui sono ghiotti. Bevevano almeno 10 litri d’acqua al giorno e nei primi 10 mesi di vita si dava loro abbondante favetta (macinata).
I Maiali si allevavano soprattutto per la loro carne. Del loro corpo però si utilizzavano pressoché tutte le parti: le carni (consumate fresche o dopo conservazione: salsiccia, prosciutto, soppressata, capocollo, ventresca, guanciale) il grasso, la pelle, cucinata nella pignatta con i fagioli, il sangue con cui fare il sanguinaccio o un condimento per lavanèlle fatte a mano, le setole per farne spazzole e l’organo genitale per ungere le scarpe. Quando era l’ora della poppata la scrofa chiamava i piccoli con le sue grida e i porcellini cominciavano a farsi avanti. Ciascuno succhiava un capezzolo, sempre lo stesso. I più furbi sceglievano quelli che davano più latte, così crescevano più in fretta. Il maiale si allevava in uno stabbiolo e raramente usciva all’aria aperta. Lo spazio angusto e l’alimentazione consistente in due razioni giornaliere erano i due elementi fondamentali per l’allevamento del maiale. Generalmente il maiale veniva macellato quando aveva 12 mesi di vita, e più o meno un peso che si aggirava attorno ai 180-220 Kg di peso.
Il maiale veniva ucciso in prossimità delle festività natalizie e comunque in tempo invernale, rigido e secco.
LU CINNE
Lu cinne a-étte lu megliàue ammíche de lu muénne. Gli-éste tuttuàje deccànne u pattrúnne, lu deffénne é i fa sén che i cummànne. A-étte lu mé dràje de lòs anemà, sélle dò mé de sènse. A Faíte lu cinne a-éve sélle che se teníve ‘ncase, sélle che i stave denghjé l’àjere é sélle che i stave dò lòs anemà. Sélle che i stave ‘ncase gli-éve pa ‘na muórre róue é i fascíve cumpagní a tutte la famíglje, súbbete i denàve la uàje se i sentíve ‘na remmàue che i-ave màje sentí. Póue a-gn-ave lu cinne che i stave denghjé l’àjere, é de l’àjere i quanescíve ciàche remmàue é dóre: un cinne che i fescíve la uàrdje a la massarí é che i-aggiappàve pe denà la uàje u pattrúnne a ciàche àure. Lu cinne de l’àjere i stave appréje appréje u pattrúnne pandànne che sétte i fatijàve; dò la cjà, lu vénte, lu piótre i stave tuttuàje illé devànne.
U derríje a-gn-ave lu cinne de massciàte che i stave ‘nzènne dò lòs anemà é i-auardàve le mandre.
Lò faitàre ó sunte sta pecuràre avóje pettócche i-ante tení lu cinne: dò, tràje cinne de massciàte i resaglievànte a teníje ‘nzènne sénta pécure. Lu cinne i-avíve mengíje assecherà é un lòcche pe durmíje.
É ténne passà, decchírre denghjé u tenemménne de Faíte a-gn-evànte lò làue, pe nun fa scannà lò cinne lò pecuràre i mettànne ‘nganne é cinne lu bruccà, che a-éve un cullare do lò spengàrde de fére appuzzutà.
‘Na muórre de faitàre i-allevànte a cacce é i tenevànte avóje cinne de cacce.
LA ATTE
É ténne passà ciàche case de Faíte i teníve ammacàre ‘na atte pettócche se mengiàve lò ra che i jentrevànte denghjé la case ó denghjé le stalle é i rusechevànte sacchètte de farínne, bjà, biaíndele. Lò ra se ‘nfeccevànte a tutte cartíje dò la dóre de mengíje é sule la atte i savíve cumme fa pe lò scattevíje é pe lò luuà du miéce. La atte i-arumaníve mé salvàce ché addumesteccà é i saglíve é jentràve de la case pe lu attarúle che a-éve un caúte dessò lu míje a cartíje la pòrete ó féje a la pòreta stésse. La atte i veníve recangjà de lu servíje che i fescíve dò lu mengíje, pecciuósemménne de tutte lò avànze de lu patrúnne. La atte i fescíve cumpagní, se lavàve da sule é gli-éve ‘na muórre scaltre. Tuttuàje dò tanne des íje avère é dò lu sentemménne salvàce, la atte éve ’n’anemà che i-allàve a cacce, che gli-éve capàce avóje de allesscíje lu patrúnne sénze che sétte la resaglíve màje a addumà.
Étte ‘n’anemà dò lu na finne, che i vate a cacce la néje. La atte gli-étte piàjene de mestère é i sinte le ciuóse premmíje de lò crestiànne: se ditte che le atte i sentevànte lò tarrammúte appremmíje che ó tremejàsse la tère é s’i ‘nfescevànte.
La atte andó i pase i làjesce lu ‘nzegnà pettócche i-uótte fa accappíje che sélle étte zòna sjà é i pissce ‘nghiòcche le pessciàte de les ate atte.
LA VACCE
Denghjé le massarí ó le stalle é stallúnne de Faíte se tenevànte le vacce, chi díje ó tràje, chi mé ‘na muórre, pe lu léje, la céje é lu quàjere pe fa le barde é le sèlle. Cacúnne i teníve la stalle u suttàne de la case, cacun’ate i teníve lu stallúnne a la massarí ó denghiénne lu paíje, spartí de la case. A vernàte le vacce i mengevànte fènne é strame, a premavére èrepe é fènne. Cache vaccíje i purtàve le vacce a ciampeíje pure a vernàte decchírre lu ténne i permettíve é cacúnne le teníve tuttuàje denghjé la stalle ó lu stallúnne, ‘nfacce la mangiattàure.
Dò le vacce a-gn-ave avóje lu búue (che lò mettevànte avóje pe teríje la rare) ó un tàure (ciavàrre) che decchírre i crevíve la vacce se disce che i taurijàve. La vacce i fegliàve lò biunílle é cache vàje s’ava chiammà lu vetrenàrje.
Dò le meneríne la vacce i dénne a tettà é lu muénne i tréje lu léje. Dò lu léje de vacce lòs antenà nóte i fescevànte lu case, la reccòtte, le scammúzze, lò casecavàlle. Jòre a Faíte ó sunte púue lò massariàle che i tenúnte ancóre le vacce.
Lu campagnuóle ciàche giuóre i curnàve lòs anemà.
S’auzàve a manche ’n’àure pe allà a la stalle.
Lu campagnuóle i denàve a mengíje é ‘s anemà, i pulezzàve la stalle, i accunzàve la lettére, i luuàve lu stàbbele é i mettíve la pàglja frésche. Lu stàbbele i veníve purtà deffuóre denghjé a cestúnne de liòrde un cartíje é ’n’ate de le béte é i fescíve da cuncíme pe lò terrínne.
Dappóje arecettà la stalle i purtàve lòs anemà a la funtàne; a vernàte che l’éje gli-éve gelà é se putíve pa satre, lòs anemà i bijevànte denghiénne de lò sícchje.
La stalle i teníve sule ‘na pòrete é un currettàue u miéce dò canà pe fa satre la sculattàure a da deffuóre.
Le vacce se trescevànte ‘na vàje lu giuóre,’na vàje se trescíve dò le manne, jòre a-gn-ante le màchene.
Lu vaccíje se menàve ’ntèrre du líje cumme ó fescíve giuóre é i teníve lu penzíje de allà a trére le vacce: s’assettàve ‘nghiòcchelu banchettiélle é i jempíve lò sícchje de léje. Appremmíje i fescíve lu càglje, de vernàte i fescíve le piésce de case, a premavére i fescíve lò casecavàlle; dò la letà i fescíve la reccòtte. Lò vaccíje che i-ulevànte cràje un ciavàrre pe lu fa taureíje, denghjé la stalle lu tenevànte spartí.
La vacce s’astacciàve pe le còrne dò la jàccule u cateniélle affermà denghjé la mangiattàure. I mengiàve lu fènne denghiénne a la mangiattàure, lunge un dò mètre é àute 50-60 centrímetre ó de la rastrelliére andó i ‘nfeccevànte lu musse.
PÉCURE É CIÉVRE
A ténne antíche a Faíte a-i-evànte parícchje pecuràre é ceveríje, che i purtevànte pécure é ciévere a ciampeíje a premavére é avóje a vernàte: le pécure i putúnte pa sta denghiénne sennú i ’ncecalúnte.
Ó sevànte ceveríje Strazzúlle é Furbíne. Ciàche case i teníve vunne ó díje ciévre pe lu léje trí bunne é pettócche lu crapètte se putíve vénne; ’na muórre de vàje la ciévere che se teníve a la stalle ó ’ncase se fescíve purtà a ciampeíje avóje de ‘n’ate crestiànne che dappóje la purtevànte arríje u pattrúnne.
A Faíte parícchje i tenevànte pécure làue ó i-auardevànte le pécure de ‘n’ate crestiànne che s’ava accettà é dò sétte i fescevànte lu patte a cumme s’ava sparte tócche i denàve la pècure.
La pécure i denàve lu léje é dò sti léje se fescevànte piésce é pezzòttele de case, reccòtte, lane. La pécure se carusàve ‘na vàje l’anne, a premavére, é ‘na vàje lavà dò la bijà, la lane se venníve ó se felàve pe fa mataràsse, màglje pe dessò, cauzètte.
La ciévere i denàve mé de tutte lu léje bunne, avóje se i fescíve púue a lu giuóre. Lu léje frische de ciévre se denàve és’nfanne é lò faitàre i fescevànte ciàche dò giuóre (própete pettócche le ciévre i fescevànte púue de léje) reccòtte é casílle frische che se putíve avóje staggiunà. Lò faitàre i mengevànte céje de crapètte a ruste ó a raù. La céje de ciévere gli-étte sapuríte é mé púue ra de sélle de pécure ó d’ajenúcce, sélle de crapètte gli-étte mé delecà. Lò faitàre i pregnevànte avóje lu stòmeche de ciévre (cumme pure de pécure) pe fa lu càglje. De la ciévere se pregnevànte avóje lu quàjere é lò pàje.
Le ciévere che se purtevànte a ciampeíje se ‘ngarpenevànte avóje ’nghiòcche le murrécene é i pulezzevànte affíje strappànne le rame de lòs àrbele.
Pe nun fa urcíje le ciévere, a lò zurre se mettíve la vandére pettócche lò crapètte che i fegliàve la ciévere s’avànta truuà pe Pache.
Le pécure i stunte a muórre remerijà de lu pecuràre é de lu cinne é i stunte a sentíje a lu pecuràre.
Lu màchje de la pécure étte lu mentúnne.
Le pécure che i sunte urcijà de lu mentúnne i fante lòs ajenúcce é decchírre i fegliúnte i sunte pa ’na muórre astaccjà a lò fiàue. Avoje a lò mentúnne se mettíve la vandére.
La pécure gli-étte scurnóse é i-atte pàue de ciàche ciuóse. I minge èrepe, fòglje, puparúle, mulegnàme, cucuzziélle, patàte, ràdeche ciacciúte, caníglje.
ANEMÀ DÒ LE SCÉLLE
La premmiére étte la gelínne. La gelínne che i rasspuliàje denghiénne a l’àjere i parle de la vita sémplece de campàgne é i métte allerí.
Dò la gelínne a-i-atte lu alle é ’nzènne i rasspulijúnte é i puzzelijúnte.
Lu alle cricche i tinte scélle chiérte é la cràjeta ‘mbustà, ciurciélle appenní.
La gelínne i minge biaídele, avàjene, òrece, farínne. É ténne passà le gelínne i stevànte avóje denghjé le case é se se lescevànte allà pe le rúue, u miéce la vi i mengevànte su che i truuànte: èrepe, vèrme, móce, semménze, piére de marme, brite, ecc…
La gellínne de Faíte éve sélle de razza paduàne, mé róse, che i fescíve ‘na muorre de céje; la livornése, biànce, mé liéce; l’uóvajòle, mé peccerélle.
Cache gelínne de l’àjere i fate la vòcchele: decchírre l’ijà gli-é fecónde a Faíte se dirre che a-gn-atte la ’ngallattàure. Se te métte lòs íje dessò la vòcchele ó sagliúnte lò peggínne. La vòcchele i-ucchelijàje é dappóje 22 giuóre ó scòzze lò peggínne pecciuósemménne a premavére.
Le gellínne i fante ‘n’ijà lu gióre ó un giuóre glióue é un giuóre nu. A ténne antíche lòs íje ó sevànte ’na recciàjese. Dò lòs íje se fescíve a cange a mèrce: se scangevànte dò farínne, bjà, zúcchere, uàjele, ecc… ó se vennevànte. Lòs íje frische i sunte bunne a frettàte; l’ijà frische sbattí i métte ’nfòreze. Un paste faitàre dò lòs íje étte lu spezzatiélle dò lu casaíje. A ténne antíche a la fénne che i-ave accettà, la cummàre i purtàve la gelínne é lò tagliulíne pe fa ‘mbròde pettócche i fescíve calà lu léje.
Lu alle étte lu ràje de lu allenàre é uàje se ’n’ate alle se permétte de prénne lu pòste sinne. Tra lume é lustre i-avíre can mé i puótte lò canaríje é i-arreuóglje tutte quànte.
Avóje faraóne, vicce é anetrèlle se tenevànte a Faíte, tuttuàje pe lòs íje é pe la céje (le anetrèlle i fante lòs íje mé róue).
Avóje la céje de pecciunnílle gli-éve prelebbà: a lò malàdde se purtevànte lò pecciúnne pe fa ‘mbròde, pettócche mé liéce de les ate céje; lu pecciunílle, mé tèndre ancóre, se fescíve a ruste ó ’nghjé u sughe.
LE BÉTE
Le béte a Faíte ó sunte sta lòs anemà de lò campagnuóle, crestiànne sémplece é puriélle.
Lò campagnuóle i tenevànte mule, mule ciuccígne é ciúcce. Cacúnne i teníve vunne ó dò mule ó giumménte ma lò méje de lò crestiànne i tenevànte sule ‘na béte é decchírre i-avànta arà i pecchievànte ‘mpriéste ‘n’ata béte pe fa lu paràje. Lò tenevànte denghjé la stalle andó mule é ciúcce i venevànte màje a le zénne. Decchírre i ciampijevànte, le béte i mengevànte la lupenèlle. Le béte se purtevànte a bàje a le funtàne che se truuvànte pe la vi che i-allàve deffuóre é se l’éje gli-éve trúbbje i bijevànte pa, cache vàje se strusscevànte ‘nfacce lòs àrbele. Denghjé la stalle decchírre i-avànta mengíje le béte i-abbijevànte a denà dò lò zuócchele pe ‘ntère fine a tanne che lu pattrúnne i mettíve avàjene, pàglje, fave. Lu mule i veníve de lu ciúcce màchje é la giumménte, lu mule ciuccígne i veníve de lu ciuà é la ciúcce.
Lu mule é le giumménte i-arevànte lò terrínne é i ciarievànte pàglje, féje de burcílle, stàbbele, fènne (deffuóre ’nghjé la feniére é póue dò mule é giumménte purtà ‘ncase ‘nghiòcche lu sulíje de la stalle andó a-gn-ave avóje la pàglje).
Lu mule gli-éve férme é i passàve pe lò trattàue dò lu pése u cóue; éve la béte che i purtàve lò faitàre a cavàlle, avóje decchírre lu mule i teriàve lu sciarabbàlle. A Faíte lò mule se mettevànte a teríje la ràre, i ciarievànte le sacchètte é lò ciste; ‘nghiòcche lò mule se mettevànte mé lòs muénne.
Lu ciuà étte lu màchje che s’accucchiàve dò la giumménte che i fescíve lò pugliénne. Le giumménte de Faíte se purtevànte a Castefrànche pe le fa accúcchíje dò lò ciuà. Zí Pasquàle de Zengariélle a sénne sinne i teníve lò stallúnne.
I servíve pa allà a prénne l’éje a la funtàne, mé manze, lu pregnevànte mé le fénne che i mettevànte lò dra ’nghiòcche lu ciúcce pe allà a lavà u uallúnne; te lu putíve métte pure manne es ’nfanne che dappóje la scóle i-allevànte deffuóre.
Cacúnne i-aràve dò lu ciúcce (Nardenòtte).
Férme, manze é pacienziàue, a lu ciúcce ó fescíve pa pàue la fattíje, i putíve étre ciargjà de mala maniére de bóue, de stàbbele, de fènne, de pàglje é s’accuntantàve de púue. Lò campagnuóle lò denevànte a mengíje fènne, caníglje, frutte, buinèlle é i ciampijevànte avóje fiúre é èrepe.
Lò faitàre i tenevànte lu ciúcce pe mé de vint’anne.
Lu ciúcce gli-étte sta tuttuàje accustà a la vite de stènte é de sacrefícje de lòs antenà nóte.
CAJÚNNE
Lu cajúnne a-éve a ténne antíche ‘na recciàjese pe lò faitàre pettócche dò lu cajúnne se fescíve la pruuíste pe la vernàte. Ciàche case i teníve dò, tràje cajúnne, accettà cainílle a la férje é màje allengréje.
Lu cajúnne i mengiàve, i biíve é i durmíve. I mengiàve de tutte: patàte, pastenàche, biaíndele, caníglje, sagghiàne é s’allàve sule utrànne denghiénne la fange.
De lu cajúnne se gettàve rénne: dò la céje se fescíve sausícchje, presútte, supressàte, capecuólle, summe, ulà; dò la saíme se fescíve a mengíje é se ‘ntarrevànte sausícchje é spangèlle; la cúteche se pulezzàve de le sétele é se mettíve a quàje ‘nghjé la pegnàte dò lò fasúle; dò lu sanghe se fescíve lu sanguinàcce é le lavanèlle, dò le sétele se fescevànte scupètte é dò lu pesscerò se uantevànte le scàrepe.
La scrófe decchírre i denàve a tettà i chiammàve lò cainílle che s’appezzechevànte u puppegliúnne che i teníve mé de léje.
Lò cajúnne se tenevànte ‘nghjé la rulle é se caccevànte sule ‘na zechélle illé devànne. Lò cajúnne se denevànte a mengíje mattínne é néje. Lu cajúnne se tijàve dappóje ‘n’anne che s’éve accettà é che gli-éve féje béje trunce trunce, se tijàve cumme ó arrevàve Cialénne, a vernàte, decchírre l’àrje gli-étte ruzecarèlle é de ‘na fràja sécche.