I MESTIERI DEL PASSATO
La vita dell’uomo faetano è stata sempre caratterizzata dal lavoro. Specie nel passato il lavoro si esprimeva in mestieri legati all’artigianato, con segreti tramandati da padre in figlio, o in piccole aziende a conduzione familiare, ai prodotti dell’agricoltura oppure come minuto commercio stradaiolo con posto fisso o ambulante. Molti di essi sono del tutto scomparsi o divenuti rari, soppiantati dal progresso e dall’industrializzazione, dalla catena di montaggio e dalla tecnologia più sofisticata oppure da altre abitudini di vita e costumi d’importazione straniera, da consumi diversi.
Le attività predominanti erano indubbiamente, e lo sono state fino al secolo scorso, l’agricoltura e l’allevamento. Accanto a queste due attività primarie, che fornivano direttamente il cibo e indirettamente un po’ di denaro (o di merce per il baratto), vi erano una serie di lavori, oggi definiti artigianali, di supporto ai due precedenti, in quanto fornivano l’attrezzatura necessaria al loro proficuo svolgimento o ne consentivano un adeguato utilizzo. Si trattava principalmente dei seguenti lavori: mugnaio, fabbro e maniscalco, falegname e carpentiere, scalpellino e calzolaio, conciapelli… Ma anche chi li praticava, ricavandone il necessario per vivere, spesso pagato in natura, si preoccupava di possedere campi, prati e bestiame. Non si devono scordare poi i tanti e gravosi lavori riservati per tradizione alle donne: da quello degli orti e dei campi alla tessitura, dalla cura dei bambini alla preparazione dei pasti quotidiani, dalla tenuta della casa alla mungitura in stalla; lo sforzo comune in famiglia era necessariamente quello di giungere all’autosufficienza, evitando per quanto possibile il ricorso al lavoro dell’artigiano e limitando al massimo gli acquisti.
Il PASTORE
Era dura la vita del pastore. Grandi rinunce, lontani dalla famiglia e dal paese, ma era una scelta di vita, una vera e propria vocazione per cui, alle esigenze degli animali, finivano per adeguarsi quelle delle famiglie intere. Il rapporto di interdipendenza che si creava tra il pastore e i suoi animali vedeva una passione che andava oltre il lavoro. Non si poteva lasciare incustodito il gregge se non per qualche ora affidandolo alla solidarietà di un altro pastore amico, che viveva la stessa condizione. La sua giornata iniziava prima del sorgere del sole. Accendeva il fuoco e si preparava al primo compito importante: la mungitura. Rito questo che si ripeteva anche la sera al rientro dal pascolo. Il pastore viveva in perfetta comunione con il suo gregge, conosceva le sue pecore una per una nei difetti e nelle qualità, le chiamava per nome, gli bastava un tocco con la mano per riconoscerle al buio e sapeva come comportarsi con ognuna di esse.
Il pastore anziano e più esperto si affacciava sulla porta per scrutare il cielo interrogandolo muto, dopo di che dava disposizione in quale direzione e a quale pascolo condurre il gregge. Allegro e fischiettando, con la gioia di vivere nel cuore e la spensieratezza della giovinezza, il giovane pastore si avviava con il gregge verso i pascoli: a tracolla una borsa di tela, la “panettére”, dove aveva posto un pezzo di pane e del formaggio, l’immancabile coltello e appeso al braccio, la frusta. Con il cane al fianco percorreva i sentieri abituali respirando a pieni polmoni l’aria fresca e tersa. Il silenzio lo avvolgeva e il gregge pascolava pigro e tranquillo.
E’ sera! Si ritorna all’ovile. Effettuata la mungitura serale, sistemati gli animali nello stazzo, provveduto ai cani con una scodella abbondante di siero e pane, i pastori finalmente potevano pensare a loro stessi.
Il Contadino
Storicamente, il lavoro del contadino è sempre stato faticoso, ed è sempre stato necessario avere una buona resistenza alla fatica e una buona capacità di adattamento a ritmi diversi dai propri, dettati dalla natura: è madre natura infatti che decide quando bisogna alzarsi la mattina e andare a dormire la sera, ed è sempre essa a decidere quando è il periodo giusto per fare determinati lavori nei campi. Iniziava a lavorare la mattina molto presto e smetteva la sera molto tardi con il buio.
Il lavoro dei contadini non si esauriva mai, l’anno agrario iniziava con:
LA SEMINA
Prima della semina, il contadino dissodava il terreno, toglieva le pietre più grosse, bruciava i cespugli, sradicava le erbacce, quindi arava il terreno. Si metteva il giogo ai muli cui era attaccato l’aratro e con esso tagliava il terreno sia dall’alto verso il basso sia orizzontalmente con il vomere, mentre l’orecchio rivoltava la fetta di terra.
Per l’aratura del terreno i nostri antenati usavano l’aratro, dapprima in legno e poi in ferro.
Come era composto un aratro:
- Bilancino – timone: serviva per attaccarvi la forza trainante animale; se le bestie erano accoppiate, si applicava all’attacco dell’aratro un capo-bilancino composto da un gancio arpionato, per fissarlo all’attacco, e di due anelli, in cui fissare il gancio arpionato delle due forze trainanti.
- Bure – Pertica – Stanga: timone fissato al ceppo. Leggermente ricurvo alla base nell’aratro di legno. Se l’aratro veniva tirato da buoi, la bure doveva essere più lunga per permettere l’attacco direttamente al giogo tramite un attrezzo di cuoio e fissata con dei pioli per evitarne il distacco. Se invece l’aratro veniva trainato da muli, la bure era più corta e doveva essere munita di attacco e tiro all’estremità anteriore per l’aggancio del bilancino.
- Profime: serviva per fissare la bure al ceppo e per regolare la profondità dell’aratura.
- Ceppo – Dentale: era la base dell’aratro. Era di legno duro e massiccio e serviva per reggere il vomere. La parte posteriore, terminante a forma di “L”, per facilitare l’inserimento della stegola-stiva, era più larga per favorire la rottura delle zolle.
- Vomere: aveva la forma di un cono e serviva per penetrare nel terreno. Era costituito da una robusta piastra di ferro a forma di trapezio irregolare, con una superficie leggermente ricurva munita di lembo tagliente, orizzontale, che, penetrando nel terreno, distaccava orizzontalmente la fetta di terra da rovesciare. Lo spigolo che tagliava, inoltre, era sempre disposto con una certa obliquità rispetto alla posizione dell’avanzamento. Il vomere si collegava alla bure, con dei bulloni a testa annegata; questi, penetrando nei fori posti sul vomere, si collegavano alla bure e venivano, poi, stretti con l’apposita chiave. Il tagliente poteva essere rettilineo oppure concavo o convesso (per i terreni argillosi era più adatto quello convesso). Quando la punta ed il tagliente del vomere erano alquanto consumati era necessario ripristinare la forma iniziale delle due strutture, mediante la fucinatura e la battitura.
- Stegola – Stiva: serviva all’operatore a regolare e a dirigere la marcia dell’aratro e per eseguire le manovre di interramento e di serramento, all’inizio e alla fine del solco. Era formata da uno o da due assi terminanti con manopole applicate alla parte posteriore della bure per agevolarne la presa.
- Impugnatura
- Versoio – Ala: era l’organo operatore destinato a produrre il parziale capovolgimento della striscia di terra già distaccata, lateralmente ed inferiormente, mediante i tagli del coltro e del vomere.
- Piolo: serviva per bloccare la stegola al ceppo.
- Tiro: asta di ferro alla quale veniva agganciato il bilancino.
- Attacco: serviva per bloccare l’asta. Gli aratri in ferro tecnicamente non differivano di molto rispetto a quelli in legno; la differenza principale, dal punto di vista tecnico, era la presenza di una ruota che serviva a regolare la profondità dell’aratura.
Si usavano i seguenti due tipi di aratro in ferro:
· La “PERTICARA” o “FILATERRA”: aveva il vomere fisso e, quindi, si poteva
arare solo in un verso. Esso veniva usato nei campi pianeggianti in cui era
possibile arare, anche girando perimetralmente.
· Il “VOLTAORECCHIO”: aveva, invece, il vomere girevole.
La forza motrice per l’aratura era costituita dai muli o dai buoi, quasi sempre apparigliati.
I paramenti di un mulo predisposto per l’aratura consistevano in:
pettorale costituito da una sagoma triangolare nel quale c’era della paglia, esternamente, invece, era guarnito con cuoio; la parte aderente al derma della bestia era costituita da una tela. Al collare si applicavano dei pezzi di legno di forma allungata con dei fori in cui si facevano passare delle lunghe corde.
Quando la forza motrice era rappresentata da buoi le cose erano diverse.
I buoi erano provvisti di giogo che consisteva in un blocco di legno con due anse semicircolari; esso poggiava sul collo dell’animale ed era legato sotto il bavero per mezzo di aste di legno semicircolari, che finivano in due fori praticati sulla parte alta del giogo; il tutto era fermato con dei pioli di legno. L’aratro, di contro, era provvisto di una lunga asta da tiro che veniva inserita in un cappio di cuoio fissato con un piolo anch’esso di legno. I buoi erano guidati con delle lunghe corde legate alle corna per mezzo di pezzi di ferro montati pure sulle corna. I buoi non erano molto usati a Faeto per l’aratura della terra.
Fatto ciò, concimava il terreno e infine spargeva a mano i chicchi di grano sul terreno lavorato.
Si iniziava verso la fine di settembre, con la semina dell’avena. L’appezzamento di terreno veniva diviso in piccole parti dette pòreche; si faceva tale suddivisione per spandere il seme in modo uniforme. Le pòreche erano diverse per grandezza, a seconda della tipologia dei semi.
Il seme dell’avena veniva sparso sia all’andata sia al ritorno: si diceva semina a due archi; il grano, invece, solo in un verso: si diceva semina a un arco.
L’avena veniva sparsa in siffatto modo sia perché è più leggera del grano sia perché è meno scivolosa, per cui alcuni chicchi erano trattenuti nel palmo della mano.
Il seme, specie quello del grano, veniva setacciato con i crivelli, per eliminare ogni impurità e selezionare solo i chicchi migliori; poi veniva lavato in grossi tini e asciugato al sole e, infine, qualche giorno prima della semina, veniva trattato con la piéra turchìne che rendeva il seme immangiabile da parte degli uccelli. Il giorno della semina, il contadino si alzava di buon mattino, verso le quattro, e dopo aver pulito la stalla, caricato il seme e tutti gli attrezzi sul basto, si recava nel fondo. Dopo aver suddiviso il fondo procedeva alla semina.
La donna nel lavoro di semina era adibita per lo più alla frantumazione delle zolle. Alla fine della semina, i lati del fondo risultavano calpestati dai giri compiuti dalla coppia di animali; per questa ragione si arava per circa un paio di metri, in senso perpendicolare al fondo. Tale aratura era detta reccàpete. Se il campo seminato era soggetto ad accumulo di acqua piovana, si tiravano dei solchi in modo da incanalare l’acqua. Tali solchi erano detti sciacquattàue.
Per la semina, si usavano le bisacce in cui veniva messa una certa quantità di seme. Per meglio afferrare il seme, il contadino sollevava leggermente, con la mano sinistra, il lato interno sinistro della bisaccia, in modo da spalancarne l’apertura; in questo modo egli si ritrovava agevolato il suo lavoro. Talvolta capitava che il contadino non avesse neppure il grano sufficiente per la semina, per cui era costretto a chiederlo in prestito.
LA FIENAGGIONE
Tagliava l’erba per essiccarla e fare il fieno, riempiva i fienili per poi poter dare da mangiare agli animali, quando il cibo scarseggiava. I contadini, oltre a provvedere al fabbisogno umano, dovevano provvedere anche alla raccolta e deposito di fieno per gli animali, sia per quelli da soma che da stalla. Il taglio del fieno avveniva nel mese di maggio-giugno, quando l’erba era diventata dura, ma non aveva ancora contaminato il terreno con i suoi semi. L’attrezzo usato era la falce fienaia, formata da una grossa lama arcuata di ferro, fissata ad un manico di legno avente una impugnatura. La lama, larga alla base 10-15 centimetri, terminava a punta, aveva una lunghezza variabile da 60-90 centimetri; il bordo chiamato cutètte era alto alcuni centimetri. All’estremità della parte larga della lama aveva uno spessore di 6-7 centimetri che per mezzo di una ghiera di ferro e di un cuneo di legno si fissava al manico. Per adoperare tale attrezzo servivano abilità e forti braccia. Quando si falciava, il contadino seguiva sempre l’andamento dell’erba in modo da fare il minor sforzo possibile. La striscia di terra che riusciva a portare avanti era all’incirca di un metro. Se a falciare erano più persone si procedeva a scaletta in modo da evitare il pericolo di ferirsi con la falce.
Quando il fieno era seccato nella parte superiore, si provvedeva al ribaltamento dei filari per agevolare l’essiccamento anche alla parte sottostante.
Dopo l’essiccamento, si procedeva al trasporto del fieno nei pressi della masseria dove veniva accatastato in cumuli a forma di cono chiamati fienili. Per il trasporto con gli animali lo si legava in fasci.
Il fieno veniva disteso e disposto intorno ad un lungo palo conficcato nel terreno; tutt’intorno, il fieno veniva intrecciato. Si costruiva, così, un mucchio a forma di cono, rendendolo impermeabile all’acqua. Per prendere, all’occorrenza, la quantità che serviva per il governo degli animali il contadino usava la sega tagliafieno; questa era formata da una vecchia falce fienaia o da una rudimentale lama dentata e fornita di un manico di legno.
LA MIETITURA
Si mieteva verso luglio-agosto, periodo in cui le giornate erano molte lunghe e gli insetti incominciavano ad essere fastidiosi. La raccolta del grano avveniva manualmente e se la forza-lavoro era insufficiente si era costretti ad “assumere” lavoranti occasionali.
Spesso si ricorreva a mietitori di Castelluccio Valmaggiore, Biccari, Troia, Orsara, a anche di paesi della marina come Zapponeta, Margherita di Savoia, Barletta, Trani, Bisceglie…
Durante il periodo della raccolta del grano questi mietitori camminavano scalzi e al posto delle scarpe calzavano pezzi di copertone presi chissà dove; quelli che avevano le scarpe, per non farle consumare le portavano appese in spalla. Portavano addosso anche i ferri del mestiere, ovvero un paio di falci e tutto l’occorrente per la mietitura. A tracolla portavano una bisaccia in cui riponevano gli indumenti di ricambio e un pezzo di sapone. In testa solitamente indossavano un grosso cappello a falde larghe per ripararsi dal sole cocente; sulla nuca mettevano un fazzoletto inumidito per rinfrescarsi il collo.
I mietitori sopraggiunti a Faeto si fermavano ai Quattro Cantoni, sul Ponte e alla Piazzetta, che diventavano luoghi per la contrattazione e l’ingaggio dei lavoratori. Trascorrevano la notte o in qualche stalla o all’addiaccio. I luoghi preferiti per passarvi la notte erano o la masseria dei Paoletta, in contrada Piano dei Rovi, o presso la fontana oppure dietro i mucchi di covoni.
La mietitura era un lavoro prettamente maschile, ma in caso di necessità, come nel periodo della guerra, anche le donne furono costrette a mietere; anzi, alcune andarono persino a lavorare a giornata.
A carico del proprietario del fondo era la paga e anche il mangiare, compresi 2-3 litri di vino pro-capite, per giornata lavorativa.
Ci si fermava solo per mangiare. La colazione era a base di insalata di pomodori, cipolla, cetrioli e formaggio di capra. A mezzogiorno si pranzava con salsiccia o pezzi di filetto di maiale conservati sotto sugna.
Verso le 5 del pomeriggio, a merenda, si consumavano gli avanzi del pranzo e pezzi di formaggio; il tutto era completato da buon vino.
A fine giornata ci si recava in casa del proprietario per cenare con maccheroni fatti in casa, fagioli o ceci e cotenna di maiale. In occasione del termine della mietitura si cenava con maccheroni al sugo.
Durante tutta la giornata lavorativa non mancava mai il vino, che si beveva direttamente dal barilotto che poteva contenere da 1 a 6 litri, a seconda della sua grandezza. Tale barilotto, ricavato da un tronchetto d’albero di ciliegio, aveva un foro in cui veniva infilata una cannuccia lunga 7-8 centimetri; di lato, inoltre, veniva messo anche uno stelo di grano per facilitare il deflusso del vino.
I mietitori si alzavano la mattina prestissimo per fare il lavoro prima che il sole scaldava la giornata. Così incominciava la giornata lavorativa per i raccoglitori di quel dono prezioso di Dio, che avrebbe portato un po’ di sollievo economico ai lavoratori della terra. I mietitori si muovevano a gruppi di quattro mietitori e un legatore che era adibito alla legatura dei covoni, spesso una donna. Le quattro persone formavano la squadra, la paranza.
L’attrezzo del mestiere era la falce. Tutti i mietitori usavano falci dentate a lama stretta. Vi erano diversi tipi di falci che differivano per piccoli particolari. I faetani prediligevano la falce di Pietrelcina che era più grande, con punta lunga e dritta piegata in alto. Il manico era di forma cilindrica e fatto di legno con, alla base, una sporgenza a guisa di dente che serviva per non far scivolare la mano.
I mietitori indossavano una vandére, grembiule di tela rigida e dura, per evitare che le spighe pungessero le gambe, alle dita lunghi ditali fatti di legno di canne, lò cannílle”, non solo per difendere le dita della mano sinistra dai colpi della falce, ma anche per sostenere la mano allargata quanto bastava per impugnare con una presa migliore il ciuffo di spighe tagliate, che poggiata sul braccio sinistro coperto da un bracciulàre, manicotto di pelle d’agnello o di capretto, veniva poi poggiato per terra e raccolto con gesti veloci dal legatore insieme ad altri sette o otto ciuffi che legati formavano dei covoni. Le gambe erano coperte con sottocosce anch’esse di pelle per frantumare il gambo duro delle spighe. La squadra era guidata da un capo squadra, capeànde, che tracciava la striscia da seguire nella mietitura.
Al primo colpo di falce invocavano la benedizione di Dio e durante il lavoro ringraziavano, con canti e preghiere, la Madonna e i Santi perché il lavoro e il raccolto andassero per il verso giusto. Alla fine i covonivenivano riuniti a gruppi in pegnariélle, e lasciati al sole ad essiccare pronti per essere portati all’aia e, trebbiati.
LA TREBBIATURA
Una volta essiccati, i contadini riempivano l’aia di covoni. Di solito l’aia veniva impegnata mettendo al centro della stessa un covone sul quale era poggiato un sasso. L’aia aveva forma circolare per consentire agli animali impiegati per la trebbiatura, di potervi girare intorno, calpestando con gli zoccoli i covoni o trainando una pietra o un aggeggio rettangolare. Quest’ultimo strumento, formato da 4 pezzi di legno, chiuso all’estremità inferiore da una lamiera bucherellata per facilitare la fuoriuscita del chicco di grano dalla spiga e tranciare lo stelo, era chiamato trebbio. Le aie avevano un diametro variabile dai 6 ai 12 metri. Esse venivano preparate adeguatamente; infatti, si spianava il terreno, si tagliava l’erba con la falce e talvolta si passava il trebbio per sminuzzare l’erba. Tolta l’erba, bisognava rassodare il terreno: una persona versava dell’acqua, un’altra spargeva la pula per riempire eventuali buchi e una terza batteva con un maglio di legno il terreno nel punto in cui era soffice o sollevato dalle talpe. L’intera superficie dell’aia, asciutta, veniva pulita con una scopa fatta con rami di ginestra. Durante il periodo della trebbiatura l’aia era tenuta sotto costante controllo per non far aprire il terreno; in questo caso bisognava intervenire subito, versando acqua nelle zone in cui i raggi solari avevano formato spaccature. Una trebbiatura normale era composta da 10 pegnariélle da 30 covoni. Una persona saliva sulla bica e lanciava con un forcone i covoni nell’aia dove venivano sfilati e disposti in centri concentrici. La prima fila di covoni aveva la spiga rivolta verso l’interno, gli altri erano messi in maniera opposta, cioè con le spighe verso l’esterno. La disposizione della prima fila serviva per non far schizzare fuori dalla superficie dell’aia i chicchi di grano. I covoni venivano sistemati in cerchi concentrici sempre di diametro inferiore fino a chiudere la trebbiatura arrivando al centro dell’aia. Fatto ciò, si iniziava a far girare intorno all’aia gli animali, in genere a coppia, legati l’uno accanto all’altro, per far slegare le legature dei covoni. Il contadino dirigeva questo girotondo restando al centro dell’aia, tenendo in una mano le redini degli animali e nell’altra una frusta di cuoio che, sovente, faceva schioccare per incitare gli animali a girare.
Dopo circa mezz’ora di girotondo, una volta abbassato il livello delle glume, bisognava rivoltare la pesatura; subito dopo ricominciava il girotondo degli animali, che trainavano una pietra scolpita per frantumare le spighe.
Fatta la paglia aspettavano il vento per iniziare a spagliare. Gli uomini alzavano all’aria la paglia affidando al vento il compito di separare il grano dalla paglia. Mentre questa era portata via dal vento ricadendo un po’ lontano formando il pagliericcio, il grano ricadeva nell’aia evidenziando il colore biondo oro. Con la pala si separava il grano dalla pula, e con setaccio, si toglieva tutto ciò che il vento e la pala non era riuscito a portare via. Lavoro lungo, faticoso e polveroso che spesso durava giorni e che metteva a dura prova le loro forze e la loro salute. Subito dopo la seconda guerra mondiale ai muli nell’aia subentrò la trebbia, macchinario mosso dal motore del trattore e capace di separare la paglia dal grano in pochi minuti. Ma la fatica non diminuì perché il caldo, la polvere, il rumore erano infernali e i ritmi di lavoro molto aumentati perché dettati dalla macchina.
Oggi tutto è cambiato. Nell’arco di tempo di alcuni decenni la nostra economia non è più prevalentemente agricola ma anche industriale, commerciale e turistica. Il modo di coltivare le terre è cambiato. Da un’agricoltura arcaica si è passati a un’agricoltura meccanizzata, da un’agricoltura estensiva verso un’agricoltura intensiva e si va verso un’agricoltura in serra dove pochi metri quadrati danno quantità di prodotti che prima erano dati da enormi estensioni di terreno. Oggi si va verso la produzione di prodotti di alta qualità e quantità in piccole estensioni di terreno.
Il Garzone di Bottega
Di artigiani nei nostri paesi ce n’erano tanti: falegnami, sarti, calzolai, funai, sellai, carrettieri, stagnini, barbieri… Di conseguenza molte erano le botteghe. Ogni bottega d’artigiano aveva il suo garzone (apprendista del mestiere). Se le bambine fin da piccole venivano avviate ad apprendere un mestiere adatto alle ragazze, i maschietti venivano affidati a bravi artigiani perché imparassero un mestiere per il futuro. L’istruzione anche minima non era per tutti. Saper leggere e scrivere non dava il pane e l’andare a scuola sottraeva braccia lavorative alla terra. Pertanto le famiglie provvedevano già dall’età della scolarizzazione ad inserirli nel mondo del lavoro o come garzoni di bottega o come garzoni di greggi e di mandrie, quest’ultimi contribuivano, anche se con poco, all’economia della famiglia percependo un esiguo salario mensile, un “mezzetto” di grano e un litro d’olio al mese da dare alla famiglia, vitto e alloggio per il garzone. Il garzone di bottega, invece, non percepiva nulla durante l’apprendistato se non, a discrezione del “maestro”, una piccola mancia in occasione delle grandi feste o alla fine di un lavoro importante.
Il mattino i ragazzini frequentavano la scuola, nel pomeriggio andavano in bottega. L’apprendistato durava dai due a più anni secondo le capacità di apprendimento e l’impegno dei discepoli. Tutto era gratuito, sia per le famiglie che non pagavano l’insegnamento sia per il “maestro” che non dava retribuzione. Nella bottega non solo si apprendevano le tecniche del mestiere, ma si curava anche la crescita umana e civile. Il maestro, infatti, era tale anche nell’aiutare il giovane a diventare uomo. Il discepolo da parte sua sarebbe stato riconoscente per tutta la vita al suo maestro, educato in questo dalla famiglia.
I Mestieri di Artigianato legati all’Ambiente Contadino
Intorno al mondo rurale e del contadino nacquero tanti altri mestieri.
IL BASTAIO:
Il mestiere del bastaio era interessante. Richiedeva una buona conoscenza delle pelli degli animali e del loro appropriato utilizzo, la tecnica della concia e della lavorazione delle pelli e non da ultimo l’abilità nello scegliere quelle adatte per i vari usi, doveva conoscere bene anche i cavalli, le razze, le misure. Egli costruiva i basti per tutti gli animali da soma, ma anche le selle per quelli da galoppo giovani. Il bastaio curava ogni tipo di finimento, a pettorale, a collana, per pariglie da tiro a due, a quattro, a sei cavalli. Le attrezzature usate erano poche, ma occorreva pazienza ed esperienza: la mezzaluna con cui riduceva lo spessore del cuoio, il “leva spigoli” che serviva per arrotondare gli angoli, una serie di coltelli per tagliare il cuoio, robusti aghi, filo speciale per cuoio, tessuto di sacco, paglia o fieno. I basti e le selle avevano sostegni di legno della misura del collo e della parte posteriore della groppa del cavallo; la base, imbottita di paglia, era di pelle di mucca, a cui veniva data la forma. L’interno della sella era di tela per assorbirne il sudore, l’esterno era di cuoio perché durasse più a lungo. Non era però un lavoro semplice quello del sellaio perché bisognava ben conoscere la lavorazione del cuoio per costruire anche gli armamenti, cioè gli accessori, quali briglie, cavezze, cinghie, sottopance, che richiedevano qualità e diversità di cuoio. Grazie alla loro intuizione, infatti, nacque l’attacco degli animali da tiro, che permise di sfruttare la forza proveniente dal pettorale e dall’incollatura.
A Faeto le selle venivano acquistate durante le fiere del paese e così i sellai durante l’anno avevano solo il compito di effettuare riparazioni. Gli ultimo bastai che ricordiamo a Faeto sono Mastri Antonio (La Recciòlìne), Altieri Michele e Raffaele (Nebbelóne), Monaco Antonio con i due figli (l’Abbruzzàje) e Marella Nicola (Masaniélle).
I Lavori Porta a Porta
L’Ombrellaio
“Lu mbrellàre!! È arrivate lu mbrellàre!!! Chi tène lu mbrèlle d’aggiustà, ascesse fore!”. Era il grido di richiamo dell’ombrellaio che veniva da fuori, per le strade del paese quando si avvicinava la bella stagione dell’autunno. Invitato dalla massaia, l’uomo osservava con attenzione l’ombrello e poi sentenziava “Signora, lo faccio tornare nuovo”. La brava massaia risparmiatrice pattuiva il prezzo prima di affidargli il lavoro. Non voleva sorprese. Poi gli consegnava l’ombrello e l’ombrellaio sotto gli occhi vigili della donna, seduto sul gradino di casa, sistemava “le bacchètte”, le stecche, raddrizzava la stoffa della parte superiore con i “peretti” all’estremità delle stecche, controllava la levetta che apre e chiude l’ombrello, aggiungeva qualche gocciolina d’olio e poi, intascato il meritato guadagno, via per altre strade con il suo richiamo “Lu mbrellàre!!!! È arrivàte lu mbrellàre!!!”.
Il Riparapiatti
Un tempo vuoi perché erano pochi i soldi di cui le famiglie disponevano, vuoi perché il senso del risparmio e dell’economia era ben radicato, prima di spendere una lira si pensava parecchio. Si cercava di risparmiare su tutto e in ogni occasione, si stava bene attenti a quello che si poteva e si doveva spendere e senza sprechi. Detto questo si può capire perché il mestiere del “sanapiatti” fosse molto apprezzato. Non appena un oggetto di creta utile, anche se non più nuovo, si danneggiava, si cercava di ripararlo, si aspettava il “sanapiatti” perché da esperto sapeva come intervenire per farlo tornare utilizzabile. Il “sanapiatti” era un artigiano ambulante, che girava di paese in paese, di strada in strada con la sua borsa di pezza carica degli attrezzi del mestiere: trapano ad arco, tenaglie, filo di ferro, pinze, gesso, straccetti puliti, qualche vasetto di colla. La massaia si affacciava alla porta e lo invitava ad avvicinarsi per mostrargli l’oggetto che necessitava d’intervento. Si poteva trattare di un boccale, di un piatto, di una scodella, l’uomo ispezionava con attenzione. Se la spesa valeva l’impresa, se cioè valeva la pena ripararlo, il “sanapiatti” iniziava il lavoro. Intanto praticava dei fori con il trapano ad arco, di legno, lungo i bordi dei pezzi rotti e facendoli ben combaciare li attraversava con dei piccoli pezzi di ferro, legandoli tra di loro e ricoprendoli con colla speciale. Dopo qualche minuto limava con una piccola lima i pezzetti dei nodi del ferro filato, poi su quelle cicatrici passava del gesso per otturare eventuali minuscoli fori tra i punti di cucitura. Aspettava con pazienza che il gesso si asciugasse, controllava che il lavoro fosse ben riuscito, quindi intascando la ricompensa per il suo lavoro, riprendeva il cammino di abile sarto di cocci ringraziando il Buon Dio perché anche quel giorno poteva portare qualcosa a casa per sfamare la famiglia. Da parte sua la massaia, dopo aver controllato il lavoro versandovi dell’acqua, mostrava il buon risultato della riparazione ai figli e raccomandava con le buone e con le minacce di fare attenzione a non procurare danni, altrimenti si sarebbe procurata ciotole e piatti di legno in cui farli mangiare.
A Faeto alcune persone si erano specializzate nella riparazione di brocche e piatti:
Giovaniello Nicola (Gneccariélle) |
Lips Francesco Saverio (Zizì) |
Rubino Consalvo (Cunzàlve) |
L’Arrotino
L’arrotino ambulante spingeva con fatica il carrettino dalla grande ruota per le vie del paese. Erano sistemate sulla parte anteriore del carretto le mole, che venivano inumidite con l’acqua di una ampolla posta più in alto. Si fermava e incominciava a molare coltelli, forbici, rasoi e lame di qualsiasi genere e uso che le massaie gli portavano; con un movimento ritmico e calibrato del piede pigiava una sbarra di legno orizzontale, la quale attraverso corda e puleggia faceva girare i diversi tipi di mole.
Il Cardalana
Intorno al mondo della pastorizia ruotavano tanti mestieri. La preziosa ed indispensabile materia prima, la lana, non veniva venduta tutta. Parte di essa, infatti, adeguatamente preparata, sarebbe stata utilizzata in loco dalle donne per confezionare indumenti vari e utili per tutta la famiglia. Perciò si era affermato il mestiere “de lu scardalàne”. Lo scardassiere giungeva in paese con l’arrivo della primavera, a conclusione del periodo della tosatura. In ogni famiglia, non solo quelle dei pastori, vi erano uno o più manti di lana grezza, che bisognava cardare per renderla uniforme e soffice e poi filarla con il fuso a mano e ricavare, grazie all’abile lavoro delle massaie, indumenti caldi e soffici: maglie, calze, mutande, sciarpe, mantelle, berretti… la doppiezza del filo variava in base all’utilizzo che se ne doveva fare. Il filato veniva poi passato all’aspo per formare delle matasse da lavare bene e poi farne gomitoli. In nessuna casa mancavano gli attrezzi necessari.
Così la lana grezza veniva ridotta a sottili e regolari filamenti o a manti soffici secondo la richiesta della massaia. La lana era bianca o nera, i due colori naturali, ma, mischiando ciuffi di lana dei due colori, si potevano ottenere tonalità diverse di grigio. Lavoro molto utile quello del cardalana perché facilitava il compito della filatura alla massaia. Chi infatti non poteva permettersi la cardatura doveva filare la lana grezza e costava più fatica e più tempo. Anche a questo mestiere è subentrata la tecnologia con macchine veloci e perfette.
Il Compratore di Capelli
Una bella chioma era l’attrattiva di bellezza più ambita.
Un tempo tutto era fatto con materiale e fibre naturali.
Una volta alla settimana giungeva lu capillecapellàre e si annunciava con l’inconfondibile e abituale invito “O capellàre!!! o capellàre!!!”. Le donne, sempre con le orecchie attente ad ogni voce di richiamo degli ambulanti, si affacciavano sulla porta e chiamavano per consegnargli il loro bottino in cambio di aghi, forcine, spilloni, specchi e fermagli, pettini, pettinini e pettinicchi.
Neanche un capello doveva andare perso, infatti, i capelli, che cadevano sotto il pettine o sotto le forbici quando si accorciavano le chiome, venivano conservati gelosamente a mucchietti in un sacchettino appeso dietro la porta d’ingresso del sottano.
“Lu capellàre” portava sul petto con una fascia di cuoio a tracolla, legata ai fianchi da un’altra fascia di cuoio, una cassetta rettangolare suddivisa in tanti scomparti in cui era posta la mercanzia di scambio; con molta attenzione contava gli aghi, gli spilli da balia… il numero dipendeva anche dalla grandezza che la donna preferiva. Faceva anche molta attenzione a contare le forcine per capelli perché per sbaglio non ne desse qualcuna in più. A volte pure su una di queste c’era un lungo discutere tra la donna e il venditore.
Il Banditore
Una delle figure più pittoresche che un tempo animavano la vita delle nostre comunità, uno dei mestieri ormai scomparsi è senza dubbio quello del banditore.
Il banditore nei tempi passati oltre a proclamare pubblici bandi, ordinanze, a suono di tromba o di altri strumenti, era anche colui che pubblicizzava al popolo le merci che i cittadini mettevano in vendita.
Fino agli inizi del ‘900 gran parte della popolazione meridionale era analfabeta e quindi non era in grado di leggere né ordinanze né manifesti; per questo molti annunci (sia delle autorità locali che di privati per scopi commerciali) venivano proclamati da un banditore.
Non era infrequente in passato imbattersi per strada nel banditore. Fino alla fine degli anni ’50 le Amministrazioni comunali si servivano di un banditore per comunicare ai cittadini eventi, ordinanze e notizie riguardanti la vita del Comune o alcune scadenze o adempimenti.
Si fermava agli angoli delle strade, suonava il suo tamburo o la cornetta, per richiamare l’attenzione dei cittadini e, dopo due o tre lunghi e acuti squilli di cornetta o di rullo del tamburo, nel più rigoroso linguaggio faetano e dialettale, dava libero sfogo ai polmoni, gridando ai quattro venti un messaggio che gli era stato commissionato dall’Amministrazione o da un privato cittadino.
Esistevano diverse tipologie di bandi. I più importanti erano quelli delle istituzioni.
Solo alla fine venivano i cosiddetti “consigli per gli acquisti”, annunci pubblicitari riguardanti carne fresca di bassa macelleria, frutta, vino novello o vecchio al dettaglio: Se volete acquistare un litro di buon vino dovete andare alla cantina di…
Il banditore del paese al mattino annunciava l’arrivo dell’arrotino o del venditore di vestiti, segnalava che un Tizio aveva smarrito la chiave di casa e, quindi, si pregava chi l’avesse eventualmente trovata di volerla restituire, dietro adeguato compenso, o per informare che il giorno successivo, all’Ufficio comunale di collocamento, sarebbe stata corrisposta, agli aventi diritto, l’indennità di disoccupazione.
I banditori più conosciuti sono:
D’Ercole Emilio (Meliùcce de Papóne) |
Mainieri Donato (Malepenziére) |
Di Gioia Giovanni (Lu Recìsche) |
De Simone Paolo (Lu Fuggiàne) |
Artigiani
di Bottega
Il Fabbro
Il fabbro era un mestiere che si intrecciava con il mestiere del contadino, sia per la produzione degli attrezzi della campagna che per ferrare i quadrupedi. Egli, con il suo grembiulone di pelle, pazientemente e allegramente accendeva il fuoco in un grosso braciere, la forgia, e con un mantice soffiava sui carboni fin quando non erano ben ardenti. Vi immergeva quindi il ferro, tolto dalla zampa del cavallo, e quando questo diveniva malleabile e docile alla lavorazione, poggiatolo sull’incudine lo forgiava a colpi di mazzuola e martello, lo modellava, lo sagomava. Bisognava anche praticare i fori per inserire i chiodi e attaccarlo poi alla zampa dell’animale. Con un arnese simile ad un cacciavite, realizzava i fori con precisione, nella misura giusta. Raschiava poi le unghia e applicava il ferro e con un colpo secco lo inchiodava allo zoccolo. Da ultimo passava la lima per eliminare eventuali sbavature. Il cavallo aveva i suoi zoccoli nuovi, pronto a percorrere con più lena e senza sofferenza tante altre miglia.
Quando però la bestia strepitava, le si applicava il “torcilabbro”: al muso superiore veniva attorcigliato un pezzo di corda sottile, attaccato ad un manico di legno, che serviva a calmarla. Se poi tirava calci, ci pensava la pastoia: le si legavano le zampe.
Inoltre, con i suoi attrezzi, a richiesta del proprietario, poteva limare i denti dell’animale in modo che dimostrasse meno anni o scarnificare le gengive per aumentarne l’età (in questo caso più che al benessere dell’animale si pensava al benessere del padrone); toglieva, con un attrezzo arroventato, la cosiddetta “fava” che impediva all’animale la perfetta masticazione; infine, procedeva anche alla tosatura della bestia.
Aveva a che fare con tutti, perché numerosi erano gli attrezzi che costruiva per altri lavoratori: aratri, martelli per muratori, picconi, falci, zappe, scalpelli, scuri, serrature.
Per lavorare, il fabbro aveva una piccola bottega, dove in una parte sistemava gli aratri e in un’altra gli attrezzi più piccoli. Aveva la forgia con la cappa per il tiraggio del fumo; su questa erano appoggiate tenaglie di varie dimensioni, affianco alla forgia era sistemato un recipiente pieno d’acqua per raffreddare e temperare il ferro lavorato.
L’artigiano immergeva il ferro sotto la brace di carbon fossile perché si arroventasse e diventasse malleabile. Quando si trattava di un pezzo consistente da spianare e ridurre a piastra sottile, su quel pezzo intervenivano contemporaneamente due e, se necessario, tre operai (il mastro e due lavoranti), che, con una cadenza ritmica, frenetica e precisa, battevano con la mazza sullo stesso punto senza scontrarsi. L’incudine su cui si lavorava era ben piazzata su un grosso tronco d’albero pesante, difficilmente spostabile.
Il periodo dell’anno in cui c’era più lavoro era quello dell’aratura e della semina, perché in tale occasione si riparavano gli aratri.
Gli ultimi fabbri di Faeto:
Cocca Leonardo (Mastaddùcce) |
Cocca Luigi (Mastaddùcce) |
Ricci Filippo (Fulìppe/ Urèste Mattèje) |
Girardi Luigi (la Fruste) |
Finaldi Regolo (zi Rèule) |
Forchione Carmine (Anariélle) |
Ciarmoli Redente |
Finaldi Domenico (Mastattàvje) |
Maiocco Luigi e figli Regolo e Ludovico (Mastaurèlje) |
Guerrieri Mario (Prènzapanùnte) |
Forchione Leonardo e figlio Luigi (Anariélle) |
Pavia Fedele (Presùtte) |
Antonelli Leonardo (Preutàcchje) |
Gallucci Leonardo (Ciaccafiérre) |
Il CALZOLAIO
Il calzolaio lavorava in silenzio da mattina a sera accompagnando i suoi pensieri e il suo lavoro con i colpi secchi del martello su chiodini appoggiati sulla suola delle scarpe mal ridotte. Ma non appena arrivava un cliente gli si scioglieva la lingua e discuteva delle tante cose che accadevano o non accadevano in paese, mentre attaccava tacchi e sopratacchi, fibbie e mascherine, suole e mezze suole.
Aveva sempre in un cantuccio, vicino al suo tavolino da lavoro, un mucchio di scarpe da riparare; era fornito di tutto ciò che occorreva per un buon lavoro: forme di ferro di varie dimensioni, un caratteristico e affilato coltello, lima, lesina, martelletti, tenaglie, spago, chiodini di ogni forma e grandezza per lunghezza e spessore, cera, pece, vetro per levigare le suole. Tutti perfettamente ordinati nei piccoli scomparti del tavolinetto. Chino su di esso, con il grembiule di pelle o di tela grezza e i manicotti alle braccia, batteva, cuciva, incollava tutto il giorno e quando il tempo lo permetteva, poneva il suo tavolo da lavoro davanti casa e così tra una chiacchierata e l’altra, un saluto e una battuta con i passanti, trascorreva il suo tempo.
Non gli mancavano certo gli apprendisti, che come bravi soldatini obbedivano al maestro e in silenzio ascoltavano i suggerimenti su come usare chiodi, chiodini, tenaglie e martello senza schiacciarsi le dita. E così, giorno dopo giorno, guardando, facevano tesoro dei segreti della professione. Dalla teoria, cioè dalla sola visione di come si incomincia, si prosegue e si porta a termine una scarpa, si passava poi alla pratica.
Se riparare le scarpe, di qui il nome, era l’attività più frequente, non mancava però occasione per mostrare la propria bravura come creatore della scarpa, sia scarpe da lavoro che le cosiddette scarpe buone.
L’ultimo calzolaio è stato Leonardo Guerra, Zi Nardìne.
La bottega del calzolaio coincideva con la sua abitazione. Non aveva, infatti bisogno di tanto spazio, in quanto tutto era contenuto in un deschetto. E spesso la bottega si trasferiva a casa dei clienti, quando doveva costruire le scarpe per la famiglia. In quei giorni, poi, sia il calzolaio che il suo discepolo erano a carico del cliente anche riguardo al vitto.
Per costruire una scarpa innanzitutto bisognava prendere le misure e il calzolaio per questa misurazione usava una striscia di carta, sulla quale praticava alcuni intacchi che corrispondevano alle varie misurazioni necessarie per la confezione delle scarpe. Il primo intacco era per la lunghezza del piede, un secondo per la larghezza della pianta del piede, un terzo per il collo-piede e, se si trattava di scarpe alte, ve ne era un quarto per la caviglia.
Il calzolaio di allora costruiva la scarpa su misura, nel vero senso della parola.
Infatti, se il piede del cliente presentava malformazioni, il calzolaio applicava sulla forma della scarpa, in corrispondenza della parte interessata, dei rialzi, in modo che applicando successivamente la tomaia questa presentasse, nel punto dove c’era la malformazione, un rigonfiamento. In questo modo, la calzatura risultava quanto più confortevole possibile.
Una volta prese le misure si passava a tagliare il modello della scarpa, modello che era sempre di materiale cartaceo. Ogni calzolaio aveva già alcuni modelli creati in precedenza, realizzati appunto in cartone, in modo da velocizzare il lavoro. Tagliato successivamente il cuoio sulla base dei modelli di carta, si passava all’assemblaggio di tutte le parti.
Si cuciva il contrafforte, cioè il rinforzo posteriore della scarpa. Poi venivano assemblate tutte le parti della tomaia, cioè venivano cucite tra loro la parte anteriore, il rinforzo posteriore e la parte superiore centrale della calzatura.
Nell’assemblaggio non veniva usato nessun chiodo né colla, ma esclusivamente lo spago: quest’ultimo era preparato dall’apprendista, a seconda del tipo di scarpa, dello spessore del cuoio e della suola, che poteva essere a tre, cinque o più fili; poi bisognava bagnare lo spago nella pece, e questo veniva fatto dal calzolaio stesso (preparava lui stesso la pece in relazione alla temperatura); una volta impeciato allo spago veniva aggiunta, come punta, una setola di maiale che facilitava l’ingresso dello spago stesso nei fori praticati per la cucitura.
Per stringere lo spago e quindi effettuare una buona cucitura e nello stesso tempo evitare che lo stesso segasse le mani, il calzolaio teneva nella mano destra la lesina e nella mano sinistra il guardamano, che altro non era che una striscia di cuoio avvolta nel palmo.
A questo punto si passava all’imbastitura della scarpa, unendo la tomaia con il sottopiede.
Finita l’imbastitura si passava alla parte della cucitura del guardiolo con la tomaia e il sottopiede o soletta.
Poi si procedeva a riempire il vuoto presente sotto il sottopiede, cioè quella parte compresa tra il sottopiede e la suola, con strisce di cuoio, generalmente lo sfrido della tomaia, in modo che una volta calzata la scarpa, il piede appoggiasse non nel vuoto ma sul solido.
Poi si passava alla cucitura della suola col guardiolo.
La suola veniva messa a bagno perché si ammorbidisse e dopo veniva battuta con un martello su una apposita pietra o forma.
Dopo questa operazione, la scarpa veniva rifinita, eliminando le eventuali sbordature, dopodiché si passava alla costruzione del tacco: si applicava sulla suola una striscia di cuoio utilizzata per mettere in piano la parte dove applicare il tacco, poi, a seconda dell’altezza, venivano applicate, una sull’altra, diversi pezzi di cuoio, e in ultimo veniva posto il sopratacco di cosiddetta suola buona.
Come rinforzo e anche per far sì che la suola e il tacco durassero il più a lungo possibile, venivano applicate sia le brocche, chiodi usati per chiudere i tacchi e fatti appositamente dal fabbro con materiale di risulta della ferratura dei cavalli, sia particolari chiodi chiamati cendrélle, usati per chiodare la suola, a testa quadrata, venivano posti a doppia fila lungo la suola della scarpa mentre, al centro di essa veniva creata una rosa, composta da nove o sedici cendrélle a seconda della grandezza della scarpa stessa.
Terminata la costruzione della scarpa si passava alla rifilatura, prima col coltello per lo sgrosso, poi con la raspa per una prima lisciatura, poi con il vetro per una lisciatura più approfondita e in ultimo si usava il “piede di porco”, un manico fatto con legno durissimo, solitamente ulivo che veniva sfregato lungo il bordo della scarpa.
Ultima operazione era la tintura fatta adoperando il vetriolo e il nerofumo.
Questo avveniva per le scarpe da lavoro, mentre per le scarpe “buone”, venivano utilizzati materiali migliori e c’era maggior accortezza all’estetica: si usava la pelle, si effettuava una punteggiatura ovvero una cucitura più fine, per rifinitura veniva utilizzata la cera.
In un giorno il calzolaio riusciva a portare a termine un paio di scarpe.
Il calzolaio non veniva pagato a lavoro ultimato ma alla mietitura del grano o all’uccisione del maiale.
I calzolai di Faeto che oggi si ricordano: Pirozzoli Vittorio (Pruzzelìcchje), Capuano Michele e Mario (Ducènte lire), Carosielli Michele( Zi Chelìne de Giambattìste) |
Carosielli Leonardo (Zi Ducce) |
Carosielli Antonio (Zi Ucce) |
Carosielli Giovanni (Giambattìste) |
Carosielli Mario (Manòtte) |
Carosielli Giovanni (Giambattìste) |
Carosielli Antonio (Scarpariélle) |
Capuano Leonardo (Ducènte lire) |
Campanielli Giovanni (Nannìne lu zuóppe) |
Matrella Raffaele (maste ‘mbriamìne) |
Capozzielli Leonardo (Petrecciélle) |
Campanaro Rocco (Pallóne) |
Campanielli Elia (Cavaliére Pìccule) |
Castielli Nicola (Alèsje) |
D’Angelico Carmine (Federìche) |
De Girolamo Vito (Davìdde) |
Gallucci Pasquale (Tagliafàcce) |
Girardi Emanuele (Maste Manuèle) |
Guarnieri Giuseppe (Castiélle) |
Longo Pietro (Piétrelònghe) |
Marella Giovanni (Gianì) |
Pastore Prospero (Ciuchìtte) |
Spinelli Michele (Jèlle) |
Tangi Prospero (Marconére) |
Sassolino Salvatore (lu Beccaràje) |
Pavia Nicola (fiàue de Zjà Prospera de Cestunètte) |
Longo Antonio (maste Antònje) |
Zullo Leonardo (Meccùse) |
Valentino Antonio (Cestariélle) |
Cavoto Michele (Cavòte) |
Flumeri Antonio (Campuzzóne) |
Il falegname
Il falegname è uno dei mestieri più antichi, almeno quanto l’uomo, forse proprio per questo l’appeal del falegname sembra essere così appannato presso le giovani generazioni.
In passato, chiunque esercitasse questa professione doveva essere in grado di saper fare un po’ di tutto: senza l’ausilio di macchine, lavorando solo con pochi attrezzi rudimentali, quali trapani manuali, seghe, pialle, martelli, chiodi, raspe e altri arnesi, riusciva a costruire armadi, letti, comodini, bauli, madie e ogni altro oggetto di legno gli venisse richiesto, tanto che alcuni, all’occorrenza, costruivano anche le bare.
I lavori di questi artigiani potevano essere modesti o di semplice fattura, perché i nostri falegnami non costruivano mobili raffinati in quanto la richiesta proveniva da persone con limitate possibilità economiche.
Pochi producevano di ben più eleganti e pieghevoli, con intarsi e intagli, che rendevano il mobile un vero oggetto d’arte, destinato, naturalmente, a clienti più facoltosi.
Quando il falegname doveva occuparsi della costruzione dell’infisso, il lavoro si articolava nel seguente modo: nel caso in cui l’infisso da costruire fosse stato esterno il falegname avrebbe dovuto usare un legno particolarmente duro, per combattere agenti atmosferici, tarli o altri inconvenienti.
Un vecchio proverbio dice: il falegname misura due volte per tagliare una sola volta. Infatti per evitare errori di taglio, il falegname procedeva prima alla costruzione della porta e poi del telaio; nel caso in cui vi era qualche imperfezione, queste venivano corrette lavorando sul telaio. Con i “restoni” venivano costruite le fasce degli infissi.
Successivamente si procedeva alla segnatura della fascia per ottenere lo spessore desiderato, una volta ottenuto a forza di pialla, il falegname procedeva alla costruzione degli incastri, costruiti in modo diverso a seconda che si trattasse di un incastro femmina o di un incastro maschio.
Una volta costruiti le varie fasce e i vari pannelli si procedeva al loro assemblaggio con colla di pece a caldo, tutto avveniva in modo rapido in modo da evitare che la colla si raffreddasse.
Il lavoro veniva rifinito con un ulteriore piallatura per uniformare le parti assemblate, un lavoro di rasiera per una lisciatura perfetta e infine il tutto veniva ultimato da un pezzettino di vetro che veniva ripassato sul tutto. Infine venivano montati cardini (utilizzati per le porte) e cerniere (usate per la costruzione di armadi e ante).
In passato però, accadeva molto spesso che il lavoro del falegname riguardasse più la riparazione di infissi vecchi e non la costruzione di nuovi, lavorando anche a domicilio; si verificava inoltre che alcune volte il proprietario, per risparmiare, fosse lui stesso a procurare il legname.
Per il pagamento tutto avveniva al periodo della mietitura.
Oggi, con l’avvento della tecnologia, il mestiere del falegname è molto cambiato. L’uso di macchinari sofisticati e l’ingresso del computer nelle fabbriche, hanno reso meno duro il lavoro e dato rapidità ai tempi di esecuzione dei manufatti.
Gli ultimi falegnami faetani:
De Girolamo Pasquale (Pasquariélle) |
Cocco Antonio (Jùcce de Mengóne) |
Iannelli Domenico (Cannóne) |
D’Aulizio Romeo (Buózze) |
Benedetto Nicola (Marialucìje) |
Pavia Vito (Frascóle) |
Bucci Vincenzo (Bucciariélle) |
Monaco Lorenzo e il figlio Paolo (Lu Beccaràje) |
Patrevita Antonio (Ciurciélle) |
Cerrato Prospero e figlio Nicola (Ceciaròtte) |
Cerrato Antonio e il figlio Amato (Cassciàre) |
La Nave Nicola (Racciacchiélle) |
D’ambrosio Prospero (Cuppelìcchje) |
Maglio Alfredo (Maste Alfréde) |
Savino Pasquale (Pérzéchìne) |
Carosielli Michele (Lu Ceccà) |
Buonsanto Antonio (Buónsànte) |
Palma Arturo (Mastre Artùre) |
Marella Giuseppe (Cuzzètte) |
Spinelli Domenico (Jèlle) |
In aiuto dei falegnami c’erano i segantini. I più noti:
Antonaccio Nicola e figli (Lu Casalburàje) |
Cerrato Antonio e figli (Lò Cassciàre) |
Forchione Nicola e figli (‘Ndrìngule) |
Paoletta Carmine e figli (Capuràlmaggióre) |
Petitti Prospero e figli (San Pròspe) |
Rosiello Secondino (Secunnìne) |
Il Mugnaio
I faetani, nella loro stragrande maggioranza, panificavano da sé dopo aver acquistato il grano e averlo macinato al mulino.
La sede del mulino doveva essere ampia perché, oltre che per macchinari e attrezzature varie, occorreva spazio per il deposito dei sacchi di grano e di farina. Il mulino era, grosso modo, così composto: una grossa piattaforma orizzontale fissa su cui veloce girava una grossa ruota anch’essa di pietra; la tramoggia da cui scendeva il grano che veniva triturato e macinato a seconda della richiesta del cliente.
La prima categoria era la farina fine, libera da ogni impurità; vi era poi una categoria media e, infine, vi era la terza, quella dei poveri, con la crusca non del tutto separata. Per questa operazione di primaria importanza ci si serviva del regolatore che influiva sulla ruota dalla cui posizione dipendeva la qualità della farina. Per coprire completamente piattaforma e ruota c’era un cassone di legno e, sopra tutto, la tramoggia a forma quadrangolare, a piramide, sempre in legno, nella cui bocca si versava il grano che andava nella macina.
La farina, poi, finiva nei frullatori, specie di mestoli triangolari che la ricevevano e nel giro che facevano la raffreddavano, poiché la farina usciva calda a seguito dell’azione della ruota sulla piattaforma. Dalla macina uscivano farina e crusca; dal grano duro, in media, si ricavava l’ottanta per cento di farina e venti di crusca; da quello tenero, di solito, settantacinque per cento contro il venticinque. Tra la piattaforma e la ruota c’era una paletta, che aveva la funzione di raccogliere la farina che usciva dai loro lati forniti di una quantità notevole di scanalature. Era questo un lavoro organico tra operaio e macchina e tutto si svolgeva nel modo migliore, anche perché il mugnaio, operaio esperto, riusciva sempre a conciliare il lavoro della macchina con le esigenze dei clienti. Per mantenere tutto in perfette condizioni di lavoro, sia la ruota che la base della piattaforma, almeno due volte al mese, andavano “martellate” con un arnese il quale aveva il compito di “ripassare” le due facce per far sì che non si consumassero e perdessero la presa sul grano. Ogni mulino aveva il suo carretto e cavallo con il relativo carrettiere che girava per le cascine a caricare il grano dei clienti e lo portava al proprio mulino; in seguito riportava la farina e la crusca e riceveva il conto da pagare. Gli ultimi mulini che si ricordano sono:
D’Ambrosio Paolo (Savrióne) ceduto poi a Gallucci Gelsomino (Semìne de Gnicche) |
Pirozzoli Carmine (Carmenòtte) |
Il Fornaio
Il Panettiere o fornaio è uno fra i mestieri più antichi. A Faeto numerosi erano i forni a paglia attivi. La paglia veniva procurata girando per le aie dove era avvenuta la trebbiatura e trasportata al forno con i muli.
In passato il pane veniva fatto in casa e trasportato al forno pubblico.
Quando le donne si recavano al forno con l’intenzione di panificare il giorno dopo, il fornaio indicava loro la quantità di lievito da utilizzare.
Prima della mezzanotte, il fornaio passava dalle donne per avvisarle che era giunto il momento di impastare.
Alle quattro ripassava nelle case avvisando di fare le pagnotte.
Una volta impastato, le cesti di pane venivano trasportate al forno, dove il fornaio attizzava il fuoco gettando la paglia nella parte anteriore del forno. Nel momento in cui la volta del forno diventava bianca la temperatura era arrivata a punto giusto e il fornaio, prima pulendo il forno con il “frusciandolo”, iniziava ad infornare pagnotte, pizze e taralli preparati dalle donne.
Il fornaio conosceva le forme del pane di tutte le sue clienti. Ogni pane infatti aveva un segno di riconoscimento: tagli, fori fatti con le dita, cerchi fatti con bicchieri.
Una volta sfornato, il pane veniva adagiato sul bancone o, se doveva essere portato nelle case, il fornaio iniziava il giro delle consegne.
Per l’attività svolta, il fornaio non percepiva tanto denaro bensì, veniva ripagato con la pasta del pane impiegata per fare altre pagnotte. Pagnotte di colore diverso in quanto diversa era la farina utilizzata dalle donne.
Molte donne vedove esercitavano questo antico mestiere che permetteva loro di vivere dignitosamente e allevare i figli con il sudore delle loro fronti e la fatica delle loro laboriose braccia.
Il lavoro del fornaio era duro e consumava la vita, davanti alla bocca del forno sempre acceso si spendevano molte energie.
I forni che i faetani ricordano sono di:
Palmieri Elisabetta (Cióffe/Pirozzoli Carmine) |
D’Onofrio Fedele (Schiappulàre) che era il forno più vecchio |
Pastore Nicola e Leonardo (Cacciuniélle) |
D’Aiuto Modesto (Munèste) |
Gallucci Ernestino |
D’Ambrosio Gennaro (Gennaròtte/Veggiòtte) |
Cocco Prospero (Rizzecòcche) |
Girardi Filomena/Marella Giovanna |
Simonelli Pietro (Blacchettònne) |
Pucci Antonio Montanaro Michele (Melòrde) Pavia Giovanni (Ciaràule) Antonacci Nicola (Casalburàje) Antonacci Nicola (Cencióne) Melillo Rosa (Furbìne) |
Il barbiere
La figura del barbiere era tipica presso i nostri nonni e la sua bottega era un punto di intrattenimento per conversare di politica o per fare pettegolezzi sulla gente del paese.
Il parere del maestro barbiere era talvolta determinante nelle discussioni perché era tenuta in grande considerazione la sua conoscenza non solo della gente del paese ma anche di ciò che accadeva nei paesi limitrofi.
L’arredamento del salone era freddo, semplice ed essenziale.
Nel passato molti barbieri, non solo faetani, svolgevano il loro mestiere anche a domicilio, stringendo un vero e proprio patto verbale con il signorotto, impegnandosi a recarsi almeno due volte a settimana per la rasatura e una volta al mese per il taglio dei capelli.
Per il compenso, il barbiere veniva retribuito una volta l’anno, e il prezzo relativo alla rasatura settimanale era di un “mezzetto”.
Il mestiere del barbiere era alquanto delicato e difficile e derivava da un lungo apprendistato.
Il ragazzo che veniva preso in bottega cominciava con lo spazzare a terra dopo ogni taglio di capelli, il primo rasoio che gli veniva dato era senza lama e il suo primo cliente era il titolare, prima lezione era la saponata fatta in modo delicato e preciso in modo da non far andare il sapone sulle labbra o nelle orecchie.
Seconda lezione era la rasatura fatta con un rasoio di sicurezza.
In passato il barbiere affilava le lame dei rasoi sulle pietre e poi prendeva il naso del cliente con due dita e lo sollevava con molta delicatezza per sistemare bene i lunghi baffi.
Il taglio dei capelli invece richiedeva abilità e precisione e per questo i primi clienti erano i bambini.
Una delle particolarità dei barbieri del passato era la pratica del salasso.
Si faceva fuoriuscire il sangue tramite un taglio praticato con una lama affilata. La medicina popolare aveva però escogitato uno stratagemma per poter praticare naturalmente il salasso, ed era quello di ricorrere ad un animale dal nome comune di sanguisuga.
Nei tempi passati era abbastanza facile reperire le sanguisughe che vivono nelle acque stagnanti e nei ruscelli nei quali la corrente dell’acqua è moderata.
La terapia del salasso tramite le sanguisughe si basava sul concetto di estrarre dal corpo il “sangue marcio”, causa della malattia.
Tale salasso veniva praticato oltre che dai medici, anche dai barbieri e dai guaritori popolari.
Al giorno d’oggi, con l’ avvento dell’età moderna a Faeto non esiste più alcun salone e ciò costringe a malincuore a spostarsi per un taglio di capelli.
Ma quel che di negativo ha portato la moda contemporanea è l’aver svuotato di carica umana i rapporti tra persone che, sia pure di classi sociali diverse, avevano il gusto delle cose semplici.
Gli ultimi barbieri che si ricordano sono:
De Rosa Pietro (Petruccióne) |
Pascucci Nicola (Marceliàne) |
Gafafer Matteo (Chiuppètte) |
D’Ercole Giuseppe (Scaniòtte) |
Del Core Umberto (Lu Stagnàre) |
Maglio Ferdinando (Usscepriéste) |
Petitti Angelo (Pruzzelìcchje) |
Cavoto Giuseppe (Cavòte) |
Capozzielli Carmine (Pegnàte) |
Grasso Arnaldo (Buttegliuózze) |
Pirozzoli Giuseppe (Peniélle) e figlio |
Spinelli Domenico (Jèlle) |
D’Aiuto Ennio (Luiggióne) |
Melillo Antonio (Pesscialiétte) |
Marella Luigi (Scianariélle) |
Longo Francesco (Maste Francìsche) |
Capozzielli Giuseppe (Gióse) |
Alcuni barbieri spesso, dopo il lavoro, si dilettavano con gli strumenti musicali, allietando le varie feste paesane, come De Rosa Pietro, con i fratelli Maglio e D’Ercole Arnaldo.
Del Core Umberto e Maglio Pasquale di specializzarono anche nella costruzione di tende “paramosche”.
Il barbiere Spinelli Domenico fabbricava anche setacci, impagliava sedie e racconciava piatti.
Longo Francesco faceva anche il dentista.
Il Mastro Bottaio
Il bottaio è colui che realizza contenitori in legno di tutte le dimensioni, fra cui le botti. Il mestiere del bottaio era una volta molto diffuso mentre oggigiorno è un’arte a cui solo pochi si dedicano. Per la costruzione di una botte si utilizzano: cerchi di ferro di diametro decrescente e liste di legno (doghe) larghe al centro e più strette all’estremità. Le doghe accuratamente preparate all’interno di un cerchio di metallo che fa da solido supporto, vengono curvate tramite il calore del fuoco su cui viene posizionata la botte parzialmente costruita. Una volta formato il corpo laterale questo viene cinto con robusti cerchi di ferro. La botte viene completata assemblando al corpo laterale i dischi di chiusura. Vi sono asce di acciaio per la lavorazione delle doghe, pialle, trivelle di varie misure, graffietti per segnare i punti di incisione, trapani per incisioni, uno speciale martello per assestare i cerchi di ferro e un resinatore. Quest’ultimo attrezzo veniva utilizzato per incidere il fondo della botte in corrispondenza dell’incisione praticata nella parte superiore interna della doghe e permettere un perfetto assemblaggio tra il corpo della botte e il fondo della stessa. A Faeto, il lavoro del bottaio si limitava solo alla riparazione dei barili, utilizzati per il trasporto delle acque dalle fonti, e delle fiaschette, che contenevano vino ed erano utilizzate in primis dai mietitori. L’unico che ricordiamo è Cerulli Antonio, che lavorava in Via Fontana.
Il Panieraio
Un’altra figura di artigiano molto preziosa era il panieraio o cestaio. Egli doveva realizzare con le canne lacustri, i giunchi, tanti e vari oggetti. Bisognava quindi procurarsi la materia prima, tagliare per lungo le canne e immergere i giunchi in acqua per renderli più morbidi e malleabili alla lavorazione dopo averli privati della corteccia e levigati. Era un lavoro di preparazione lungo che difficilmente il panieraio poteva fare da solo. Di giorno girava per le campagne o le zone palustri per procurarsi il materiale e di sera, aiutato dalla moglie, si dedicava al lavoro di pulitura e taglio. In certi periodi si vedevano nella botteguccia tanti recipienti allineati, come quando qualche mese prima della vendemmia gli portavano damigiane di varie dimensioni da impagliare, fondi scassati da riparare, bottiglioni, fiaschi tutti da rivestire a mano a formare una corazza per difenderli da improvvisi e inaspettati colpi, che li avrebbero mandati in frantumi. I cesti erano i suoi capolavori per perfezione e varietà. Vi erano cesti per tutti gli usi, di grandezza e di foggia diverse. Cesti, cestini, cestoni. Per il pane, per la frutta, per le uova, per gli ortaggi, per la paglia, per le pietre, cestini per l’asilo, fiscelle per il formaggio e per la ricotta…, con un manico, con due, a forma di cono, di cilindro, di sfera.
L’ultimo panieraio è stato Patrevita Domenico.
Altri mestieri
Il becchino
Era generalmente un falegname. Costruiva le bare in legno e le lavorava a mano; esse erano ricoperte di lino o di una qualsiasi altra stoffa bianca. I costruttori avevano sempre quattro cinque bare già pronte da inchiodare volta per volta; i parenti del moribondo si recavano nella loro bottega e sceglievano la più confacente alle proprie necessità. Spesso, questi uomini non si facevano scrupolo di mandare le proprie mogli in casa del morente per proporre la propria “merce”; a loro volta, queste, per vendere la bara e guadagnare denaro, spesso arrivavano a litigare tra loro e, addirittura, a malmenarsi.
Donne come Zjà Nardìne la Róssce, Ceciarèlle, Marìja Lucìje, si recavano in casa dell’agonizzante dicendo: “Sono venuta a fare una visita! Se dopo avete bisogno, chiamatemi!”.
Se la famiglia del morto era così povera da non potersi permettere di comprare una bara, si faceva in modo diverso.
Dalla viva voce di una donna:
“Di fronte all’abitazione di Zjà Pellécchje, presso la chiesa del Purgatorio, vi era una porticina. L’unico a possederne le chiavi era il priore Zi Pròspere de Ceccóne. La porta conduceva in una stanza dove era stata posta la bara della “Madonna” e quella del “Purgatorio”. Quando moriva un uomo molto povero, il suo corpo si situava in uno dei due feretri e si conduceva al Cimitero. Qui, il comune o la famiglia si occupava di far inchiodare quattro tavole nelle quali veniva messo per sempre il defunto”.
Praticamente, la bara era presa in prestito dalle famiglie per poter condurre il defunto dalla propria casa al luogo di sepoltura.
Gli ultimi falegnami che costruirono le bare a mano furono Pérzéchìne, Monaco Lorenzo (lu Beccaràje), Palma Arturo (Maste Artùre), Zi Necòle de Marìja Lucìje e Zi Pròspere de Ceciarèlle.
L’Industria della Neve
In paese non vi era la produzione del ghiaccio, ma vi era molta neve per le abbondanti nevicate durante il lungo inverno, per cui si diffuse l’abitudine di conservare la neve per poi venderla durante la bella stagione.
La neve veniva conservata in grosse buche, le neviére, scavate nella roccia o nella terra sulle cime più alte dei monti. La più famosa era quella in località Monte Cornacchia. Questa gustosissima, graditissima e molto fragile materia, veniva ammassata a strati e pressata. La neve veniva poi coperta con abbondante paglia anch’essa pressata. La sua conservazione era in stretto rapporto con le condizioni atmosferiche. Era una lotta e a volte una gara di velocità tra l’uomo e la natura.
Al momento opportuno veniva portata in paese su muli e asini in grosse “balle” o casse di legno coperte da sacchi e paglia e depositate nella bottega, un seminterrato fresco con il pavimento in terra battuta. Veniva poi sottoposta al controllo sanitario, che colorava ogni cassa e “balla” di rosso o verde secondo l’uso che se ne doveva fare (uso domestico o altro). Intorno alla neve si sviluppò un florido commercio molto redditizio perché molto richiesta dai paesi limitrofi, Foggia, Manfredonia, San Severo.
La neve veniva venduta a chili e pesata con la bilancia a stadera. Nei paesi vicini veniva trasportata di sera tarda con i carri.
Come già accennato la più famosa era quella di Neùsse, su Monte Cornacchia. La neve era anche venduta da Regolo Finaldi. L’unico gelataio della zona era Savino Pasquale (Pérzechìne) che aveva la vendita dove c’era il Palazzo Finelli.
Lo spaccapietre
Un tempo, nelle strade, anche quelle di campagna, si spargeva ghiaino minuto, ma i fondi e le massicciate erano fatti di sassi spaccati, ricavati a colpi di martello. Un lavoro rude e pesante. Lavoravano spaccando la roccia con la sola forza fisica. Era un mestiere tra i più ingrati, sia nei mesi estivi, quando stavano ore sotto il sole spaccando sassi dall’alba al tramonto, sia d’inverno con il freddo e le gelate.
Con ogni tempo, dunque, lo spaccapietre sedeva sul suo mucchio di sassi e consumava la sua giornata, finché la massa che stava alla sua sinistra non era passata dall’altra parte, ridotta dal suo pesante martello in frantumi di breccia acuta e tagliente.
Spesso il sasso era troppo duro, oppure il martello batteva in falso e, malgrado l’abilità, ci scappava qualche ammaccatura non di rado fino al sangue.
Tutti gli spaccapietre avevano mani callose e deformate, le gambe storte e rigide per lo stare a sedere così tante ore, la schiena curvata e il corpo martoriato dai dolori.
Gli spaccapietre faetani furono:
Marella Michele (Pacciariélle) |
Cocco Antonio (Premavère) |
D’Agrippino Urbano (Rubàne de ‘Gnicche) |
D’Ambrosio Giovanni (Cacacìte) |
Di Gioia Giovanni (Lu Recìsche) |
D’Ambrosio Luigi (Veggiòtte de Maddalène) |
Gliatta Giovanni (Uannìne) |
Grasso Raffaele (Buttegliuózze) |
La Vita Domenico (Merabbellàje) |
Pierro Nicola (Lióne) |
Zefilippo Salvatore (Lu Buvenàje) |
LAVORI FEMMINILI
La massaia
Prerogativa di un tempo era che ogni donna, sin da piccola imparasse ogni lavoro relativo all’ambito casalingo.
La massaia quindi,si occupava della cura e del governo della propria casa, svolgeva servizi che andavano dalla cura e crescita dei propri figli, alla preparazione di pasti giornalieri, al lavaggio di indumenti, alla pulizia della casa, a lavori di campagna.
Il primo pensiero, appena alzata, era quello di recarsi alla fontana per prendere l’acqua, bene prezioso che in casa mancava.
Per trasportare l’acqua, la donna si muniva di barili cilindrici in legno, posti sul capo, appoggiati su uno straccio arrotolato chiamato cercine.
Per evitare di perdere l’equilibrio la donna poneva le mani sui propri fianchi.
L’acqua veniva utilizzata per la maggior parte delle faccende casalinghe, quindi impegnava la donna a recarsi più volte alle fontane, sempre affollate.
Ogni donna aspettava il suo turno e molto spesso se c’era molta gente e la donna andava di fretta, lasciava il suo barile alla donna che le stava avanti.
Le donne che si recavano alle fontane fecero si che queste diventassero centri di litigi, pettegolezzi.
Una delle figura faetane più ricordate era “zia Pauline”, la quale si prestava, in cambio di un pezzo di pane, a portare l’acqua a chi non poteva andare a prenderla. Munita di tre barili, uno in testa e due sotto le braccia, zia Pauline si recava innumerevoli volte alla fontana.
Altro compito svolto dalla massaia era quello di recarsi ogni 15 giorni al fiume o fontana per fare il bucato.
Necessario per il lavaggio del bucato era la preparazione del sapone, fatto mettendo una caldaia sul fuoco e al suo interno pezzo di lardo sugna grasso e oli vari, ai quali una volta sciolti veniva aggiunto la cenere.
Il sapone veniva messo a solidificare in cassette di legno e una volta raffreddato veniva tagliato con lo spago o con il coltello.
Munita di cesti pieni di indumenti e sapone la donna si recava alla fontana per il lavaggio.
Una volta arrivato il suo turno, la massaia iniziava ad insaponare gli indumenti; se i panni non erano molto sporchi venivano solamente sciacquati, altrimenti la massa ritornava a casa per preparare la liscivia.
Due potevano i modi per preparare la liscivia, che veniva utilizzata per ammorbidire e sgrassare gli indumenti.
Dopo vari giorni la massaia ritornava al fiume per sciacquare i panni,i quali venivano poi asciugati vicino al fuoco se era inverno o altrimenti al sole, sui rovi, in estate.
Altro compito importante della massai era la cucina.
Ingrediente principale per la preparazione dei cibi era la farina, ottenuta macinando il grano al mulino.
Ogni giorno la massaia impastava, creando con farina uova acqua e sale la sfoglia necessaria per preparare tagliolini, tagliatelle, pappardelle, cavatelli.
La cottura della pasta avveniva in una caldaia di rame poggiata sul fuoco, appesa ad una catena, i piatti utilizzati per consumare i cibi erano di terracotta di vari dimensioni.
Alimento che non poteva mancare sulla cucina faetana era il pane.
Il pane veniva preparato dalla donna ogni 15 gg, la quantità variava in base al numero delle persone.
La massaia per panificare si recava il giorno prima dal fornaio informandolo che avrebbe fatto il pane il giorno dopo, il fornaio una volta fissati i turni indicava alla massaia la quantità di lievito da utilizzare. Il lievito o veniva preso dal forno stesso o dalla vicina di casa che aveva panificato.
La preparazione del pane si articolava nelle seguenti fasi: la massaia, nel pomeriggio, apriva la madia e iniziava a setacciare la farina con lo staccio per due tre ore per avere una farina bianca.
Per rendere il pane più morbido, la massaia aggiungeva le patate, in un primo momento le metteva a bollire in una caldaia sul fuoco e poi, quando erano cotte, le sbucciava e le schiacciava o con lo schiacciapatate o altrimenti con un piatto di terracotta, conservandole in un recipiente.
Nel frattempo la massaia iniziava, in un recipiente di terracotta, ad aggiungere al lievito un po’ di farina e, amalgamando con le mani, aggiungeva pian piano l’acqua per far si che il lievito si sciogliesse.
Una volta preparato questo impasto, la massaia coprendolo con un tovagliolo lo metteva a lievitare vicino al fuoco.
Giunte le due tre di mattino, il fornaio passando per le case dava l’ordine alle massaie di impastare.
La massaia iniziava ad impastare, tale operazione durava circa due ore; sulla madia, allargava la farina, patate, lievito e sale e, affondando i pugni nella pasta aggiungeva man mano l’acqua tiepida.
Appena la pasta era quasi pronta, la massaia, dopo aver fatto un segno di croce, la copriva con una tovaglia bianca chiudendo la madia per ultimare la lievitazione.
Per far si che ci fosse una buona lievitazione la madia veniva ricoperta da una coperta di lana.
Finita questa operazione il fornaio ripassando per le case ordinava di preparare le pagnotte.
La massaia riprendeva la pasta lievitata, parte veniva utilizzata come lievito,parte usata per fare le pizze e il resto per le pagnotte.
Le pagnotte, lavorate ulteriormente, venivano avvolte in un tovagliolo e adagiate nei cesti per essere poi portate dal fornaio.
La massaia, preparava inoltre, pizza,”strazzata”, pizza al pomodoro, pizze unte, pizze con bicarbonato e lardo di maiale destinate ai più piccoli.
Il pane, veniva fatto asciugare sulla madia e quindi non veniva mai consumato lo stesso giorno bensì il giorno dopo, a differenza della pizza che invece veniva mangiata nell’immediato.
La massaia non doveva mai perdersi d’animo, doveva provvedere a tutti,
riuscendo così nel tempo, con fatica e con coraggio, a mantenere salda l’unione della famiglia diventando un modello di insegnamento esemplare per la donna di oggi.
La contadina
Il mestiere della contadina si incentrava soprattutto sulla cura degli animali e il lavoro nei campi.
Il lavoro della contadina iniziava la mattina presto quando la donna andava nella stalla per governare gli animali e per mungere caprini e bovini.
Il latte ricavato o veniva venduto oppure veniva trasformato in formaggi.
Il formaggio veniva realizzato in un calderone, setacciando il latte munto al quale veniva aggiunto il caglio per facilitare la coagulazione.
Una volta coagulato si rompeva la cagliata, veniva rimessa sul fuoco, e una volta riscaldata veniva raccolta con la schiumarola e posta in appositi recipienti chiamate “ fiscelle”, per eliminare il siero.
Dal siero rimasto nel calderone, fatto riscaldare, si otteneva la ricotta.
Successivamente si procedeva a salare il formaggio ricavato e dopo questa operazione veniva rimesso ad asciugare.
Infine, il formaggio dopo 15/20 giorni veniva sottoposto prima a lavaggio con aceto e olio e rimesso a stagionare.
Diversa era la preparazione del caciocavallo.
Altro compito svolto dalla contadina era quello di svolgere i lavori di campagna.
Durante i mesi invernali il lavoro della contadina si incentrava soprattutto nell’aiutare il marito nella raccolta della legna.
Nei mesi primaverili la donna si occupava della pulitura dei campi, togliere l’erba inutile, sarchiare il grano.
Ad aprile/ maggio la donna iniziava a piantare legumi, mais, ortaggi, granturco.
Nei mesi successivi la contadina procedeva alla raccolta del mais legumi ortaggi.
Ad ottobre si procedeva all’aratura del terreno per preparare il terreno alla semina, qui la donna aveva il compito di rompere con la zappa le zolle di terra.
Un altro lavoro che impegnava la donna si veniva a presentare quando vi era l’uccisione dei maiali tra dicembre e gennaio.
Qui, compito principale della donne era quello di lavare e pulire abilmente le budella e preparar il soffritto.
Per il soffritto veniva messo in una caldaia posta sul fuoco, guanciale del maiale cuore fegato polmoni patate e peperoni sott’ aceto.
Appena pronto, il soffritto veniva tolto dal calderone e posto in recipienti terracotta.
In passato si usava anche mangiare fette di pane passate nell’olio del soffritto, cosiddetti “ cautiélle”.
Nei giorni successivi le donne procedevano alla preparazione degli insaccati: salsiccia, soppressate, pancetta, capicolli, prosciutti, e messi ad asciugare vicino fonti di calore.
Usanza faetana prevedeva e prevede ancora oggi che la salsiccia venga conservata sotto lo strutto e riposti in contenitori di terracotta.
La Levatrice
Fin dall’alba dei tempi la nascita era considerata evento riguardante esclusivamente le donne, in quanto esisteva, ed esiste tuttora, una complicità e collaborazione tali da renderle protagoniste assolute di quegli eventi. La donna viene sostenuta ed aiutata, incoraggiata e confortata dalle altre donne, ma ce n’è una in particolare che più di tutte è in grado di farlo: l’Ostetrica, la cui figura è un’immagine universale, dotata di particolare e sottile fascino e di misteriose suggestioni, circondata da un’aura di sacralità. La levatrice doveva conoscere le “medicine”, e doveva essere calma, prudente, coraggiosa, modesta ed intelligente poiché, oltre a prestare assistenza al parto, essa doveva intervenire anche in tutti i casi di patologia femminile. Inoltre doveva incoraggiare la partoriente “ridandole fiducia, rassicurandola che non vi è alcun pericolo e, per di più, insegnando a quella che non ha mai partorito e non ha mai provato le doglie che, quando queste giungeranno, dovrà spingere trattenendo il respiro e spingendo verso il basso”. In passato i parti avvenivano in casa, quando arrivava il momento del parto e iniziavano le doglie, veniva chiamata l’ostetrica, la madre, la suocera, le sorelle e qualche vicina di casa. Mentre le donne preparavano il fuoco e mettevano a bollire una pentola piena d’acqua che serviva per lavare il bambino e la mamma, l’ostetrica faceva disporre la donna sulla sponda del letto con le gambe appoggiate su due sedie. Avvenuto il parto, l’ostetrica tagliava e legava il cordone ombelicale; lavava il bambino con acqua e bianco dell’uovo, in una bacinella nella quale aveva messo dei soldi. Il viso, invece, veniva lavato con un po’ di vino e acqua; infine vestiva il neonato. Il neonato veniva fasciato fino a quando il cordone non seccava e cadeva, infine veniva vestito. Per evitare che il bambino prendesse “il malocchio”, gli si metteva, con uno spillo da balia, sulla maglietta intima, un abitino che era stato preparato con l’immagine di S.Antonio, una immagine della Madonna del Carmine, un pezzettino del manto della Madonna Addolorata, tre chicchi di grano, tre chicchi di sale e tre pietruzze raccolte nell’acqua di un fiume. Subito dopo l’ostetrica lavava anche la mamma. La placenta veniva raccolta in una tovaglia e portata al fiume da una donna di famiglia. Qui veniva sistemata sotto una grossa pietra per evitare che gli animali potessero mangiarla. L’ostetrica si impegnava a tornare anche nei giorni successivi per lavare il bambino e la mamma; con lo scopo di evitare possibili infezioni, veniva utilizzata acqua sterilizzata. In casa i familiari riempivano due bottiglie d’acqua, le mettevano in una caldaia anch’essa piena d’acqua, le facevano bollire e le lasciavano raffreddare in modo che l’ostetrica le trovasse tiepide. Le ostetriche che hanno prestato servizio a Faeto, dalla seconda metà del milleseicento, furono:
- Elisa Salterio la quale ha amministrato numerosi battesimi a bambini che rischiavano di morire.
- Chiara De Penna
- Maria Ventura che esercitò la sua professione nell’ultimo decennio del milleseicento.
Dalla prima metà del millesettecento prestarono servizio:
- Diana Pastore
- Lucrezia Cavaliere
- Lucrezia Campanelli
- Giovanna Pastore
- Elisabetta Benedetto
- Vittoria Melillo
- Teresa Panzone
- Colomba Bozzelli
- Caterina Rucci
delle quali tre erano di Faeto.
Nel milleottocentosettantanove il comune concesse sussidi a :
- Filomena Fraganato di Faeto affinché potesse conseguire il diploma di levatrice presso la Università di Napoli.
Nel millenovecentouno fu bandito il concorso di ostetrica ma non vi furono domande per
il compenso minimo per cui il municipio pensò di elevare da quattrocento a cinquecento
lire lo stipendio.
Successivamente fecero domanda più persone e il concorso fu vinto da Agostina Passerini.
Nel millenovecentotre fu nominata Lucilla Berardi.
Fino al millenovecentootto è stata ostetrica Adele Vitali
Successivamente vinse il concorso Francesca Arancini.
Nel millenovecentotredici è stata nominata ostetrica Vittorina Passerini
Nel millenovecentosedici occupò il posto di levatrice Emma Balzotti
Nel millenovecentodiciannove è succeduta Francesca Bonomi
Nel millenovecentoventi è stata assunta la Letteria Spadaro
Nel millenovecentoventitre è stata nominata ostetrica Maria Giuseppina Morgese.
I nominativi delle levatrici sono stati estrapolati dal testo di Don Maurilio De Rosa “Il borgo natio”.
Dalle ricerche condotte sul comune, emerge che intorno agli anni trenta sia stata nominata levatrice Roma Motta proveniente da Imperia, rimasta in servizio per più di venti anni fino al millenovecentocinquantuno.
Insieme a questa donna andava Antonina Savino di Faeto.
Nello stesso anno è stata nominata Luisa Minguzzi.
Verso la fine del millenovecentocinquantatre è venuta Carmela De Muzio.
Nel millenovecentocinquantaquattro è stata nominata Didima Pancaldi.
Nello stesso anno è stata assunta Virgilia Miliardo.
Nel millenovecentocinquantacinque è venuta Carmela Troiano.
Con la delibera numero quattro del diciotto Marzo millenovecentosettantaquattro è stata
approvata la liquidazione delle competenze della Troiano relativa al servizio prestato dal millenovecentosessantatre al millenovecentosessantotto.
Alle ostetriche che dipendevano dal comune spettava uno stipendio fisso, ma, nel momento in cui nasceva qualche bambino, le partorienti pagavano in
denaro.
Dalle testimonianze ascoltate, nel millenovecentoquarantotto una signora pagò lire settemila per la nascita del figlio.
Secondo altre testimonianze, l’ ostetrica, per l’attività svolta, non riceveva alcun compenso.
La delibera numero otto del millenovecentosessantasette nomina ostetrica Maria Marcella Turillo.
Con la delibera numero nove del millenovecentosettanta viene assunta Chiara Circiello. La delibera numero sessantotto del millenovecentosettantadue nomina Anna Maria Bernardini.
La delibera numero ventisette del millenovecentosettantatre assume nuovamente Carmela Troiano come ostetrica di Faeto e Castelluccio V.M.
La delibera numero trentanove del millenovecentosettantaquattro nomina Vincenzella Di Brina.
A partire dagli settanta le donne iniziano ad andare a Foggia per far nascere i propri figli, forse perché le ostetriche che venivano assunte restavano in paese per poco tempo e di conseguenza il posto restava vuoto.
Nel caso in una donna volesse partorire in casa veniva chiamata l’ostetrica Troiano la quale, pur essendo in pensione, ugualmente prestava servizio.
Risulta che l’ultimo bambino ad essere nato in casa è stato Matrella Antonio il ventisei Marzo del millenovecentosettantasei proprio con la Troiano.
Quest’ultima è morta a Dicembre dello stesso anno.
La sarta e la ricamatrice
Uno dei lavori più diffusi nel passato e che aveva come protagonista la donna era quello del sarto.
Il mestiere del sarto era senza dubbio tra i più affascinanti e creativi che la donna potesse esercitare. Il lavoro del sarto consisteva nel tagliare cucire e ricamare indumenti ma anche contemporaneamente insegnare il mestiere alle giovani aspiranti.
Il mestiere del sarto, infatti, veniva insegnato alle ragazze che gratuitamente, spesso anche pagando, prestavano servizio nelle sartorie per acquisire la manualità e i segreti del taglio.
Ogni ragazza che desiderasse imparare il lavoro doveva portare tutti gli attrezzi da lavoro: aghi ditali cotone forbici matasse.
Per l’insegnamento la sarta o come veniva chiamata dalle proprie allieve “ zia maèstre“ era retribuita raramente con il denaro, piu spesso con il baratto o veniva aiutata nei lavori agricoli.
Di norma il lavoro si imparava guardando, carpendo i segreti facendo attenzione ai vari procedimenti per la realizzazione del capo, spiegati man mano dalla sarta.
Il cliente per la realizzazione di qualsiasi indumento doveva premunirsi di tutto il materiale o comprarlo da “zja Lenùcce la castruccèse”.
La sarta dopo aver preso le misure del cliente passava al disegno ( avvalendosi di un gessetto)dalle varie parti da tagliare. In seguito si passava al taglio improntando poi il vestito con vari punti ( imbastitura), tutto questo sotto gli occhi delle allieve. I capi imbastiti venivano provati dal cliente, se non uscivano particolari inconvenienti si procedeva alla cucitura vera e propria da parte della sarte piu esperte che rifinivano il vestito con occhielli bottoni e strirandolo con il ferro a carbone, altrimenti si correggevano e imperfezioni.
Durante il loro apprendistato le allieve si impegnavano anche nella cucitura del proprio corredo costituito da lenzuola asciugamani indumenti intimi e altri capi necessari alla vita matrimoniale.
Alcuni capi necessitavano anche di un lavoro di ricamo accurato che solitamente trattava fiori, foglie, frutta.
Il lavoro veniva svolto su un telaio di legno sul quale la ricamatrice aveva prevalentemente sistemato la stoffa da ricamare.
L’unico lavoro di ricamo che non veniva realizzato sul telaio era quello “a-giorno” eseguito tirando con l’ago dei fili e riunito in mazzetti.
Il ricamo veniva realizzato su vari tessuti: tela bianca, lino canapa.
Importante per la preparazione del proprio corredo era la realizzazione dell’abito da sposa composto da un corpetto e una gonna svasata e rifinito con bottoni pizzi e merletti.
Con il passare degli anni la figura della ricamatrice è andato sempre più scomparendo confermando il diminuito interesse per quel tipo di lavoro, ma anche per l’alto costo per avere un qualunque prezzo un indumento ricamato a mano.
Anche alcuni uomini erano abili sarti.
I sarti e le sarte che ricordiamo sono:
Carosielli Caterina (Passannànte) |
Petitti Michelina (la pagliére) |
Pirozzoli Giovanna (Surdatèlle) |
Maiocco Aurelio e il padre Prospero (Majòcche) |
Maiocco Fedele (Majòcche) |
Antonelli Luigi (Preutàcchje) |
Benedetto Leonardo (Nardìne lu Senecòtte) |
Cerrato Pasquale (Cassciàre) |
D’Onofrio Antonio (Schiappulàre) |
Ricci Sandella (Santélle) |
Gliatta Filomena (Uannìne) |
D’Aulizio Rosa (Rusenèlle de Buózze) |
Gallucci Antonia (Surdatèlle) |
De Simone Ida e Annita (Branghetiélle) |
Minichiello Amalia (La Ruttése) |
Falco Severina (Stóppe) |
Rezzolla Carmela (La Urzarése) |
De Rosa Attilia (Pezzatèlle) |
Maiocco Chiarina (Majòcche) |
Salvati Antonio (‘Ndunìne de sausìcchje) |
Montillo Giovanni (Pérzéchìne) |
Spinelli Vincenzo, Michele, Pasquale (Jèlle) |
Forchione Giovanni (Lu Cumunìste) |
Monaco Angelo (fiàue de la Róssce) |
Santosuosso Filomena (Quarantòtte) |
Cecere Vincenzo |
De Rosa Attilia era una delle più brave ricamatrici.
Il Lavoro ai ferri
Imparare a lavorare a maglia ai ferri era una delle attività manuali preferite dalle donne, soprattutto nei periodi invernali.
Tutte le donne del vicinato si riunivano, al termine dei lavori casalinghi, per coltivare quella passione che sta ritornando di moda al giorno d’oggi.
I filati che venivano principalmente utilizzati per i lavori erano la lana o lanetta.
Soprattutto lana di pecora filata con i fusi delle vecchiette. Una volta filata veniva avvolta in matasse con l’aspo e il naspo.
Una delle signore faetane particolarmente abile nel lavoro ai ferri era mamma Lèzze.
Per tingere la lana di solito si usava il mallo delle noci, che bollito dava quel bel colore marrone alla lana.
Dopo essere stata lavata ed asciugata, la lana veniva lavorata con i ferri,di vari dimensioni che potevano essere acquistati nei negozi oppure realizzati con le aste degli ombrelli alle quali veniva fatta la punta.
Si potevano realizzare lavori a maglia consistenti in capi di abbigliamento ma anche coperte tovaglie centrini.
Il capo d’abbigliamento maggiormente realizzato dalle donne faetane erano le calze di lana utilizzate da tutti i componenti della famiglia e realizzate con cinque ferri piccoli.
Molto spesso, nel passato, accadeva che molte donne realizzavano lavori a maglia con lo scopo di essere retribuite per l’attività prestata.
Lavorare a maglia necessitava di pazienza inversamente proporzionale al grado di difficoltà del lavoro (più il lavoro era intricato più era interessante lavorarlo), creatività e manualità.
La Lavandaia
Erano donne forti e vigorose, con le mani enormi, sformate dall’artrite, arrossate dall’acqua fredda. Il loro mestiere era duro e scarsamente remunerativo. La lavandaia lavava i panni dei signori che potevano permettersi di noleggiare la “lavatrice umana” La lavandaia lavava i panni nel torrente con qualsiasi tempo e temperatura, inginocchiata nell’erba. Dopo aver finito di lavare, i panni venivano stesi sull’erba ad asciugare. I ferri del mestiere erano la cenere del camino “la liscivia” l’acqua del torrente e tanto “olio di gomito” per strofinare e sbattere sulle pietre del torrente i panni.
C’erano lavandaie a domicilio che si recavano presso le famiglie che richiedevano i loro servigi e che sfregavano energicamente sull’asse di legno la pesante biancheria di lino, di canapa e di cotone Infine vi erano lavandaie che esercitavano il loro mestiere nei lavatoi pubblici.
Sfregava, lavava, stendeva e contemporaneamente diffondeva, senza acrimonia, pettegolezzi, annunci di nascite e di morti, racconti di tradimenti, di emigrazioni, di ritorni dalla guerra o dalla prigionia. Insomma il gossip dell’epoca.
Questo mestiere duro e faticoso ora è fortunatamente scomparso con l’avvento delle lavatrici.
La lavandaia, almeno nell’immaginario collettivo, era una persona felice che cantava, sola o in coro con le compagne, allegre filastrocche e canzoni mentre attendeva al suo lavo
Si ricordano:
Ruotolo Paolina |
D’Ercole Rosina (Papóne) |
Palmieri Rosa (Rusenèlle de cióffe) |
Gallucci Leonarda (Carluccèlle) |
La pettinatrice
Il primo mestiere esercitato dalle donne e solo dalle donne fu quello di pettinatrice.
Un tempo si trattava di un mestiere che veniva esercitato a domicilio, con la pettinatrice che si recava a casa delle proprie clienti per realizzare appariscenti pettinature o tagli all’ultima moda; non di rado, la sua esperienza era utile anche per avere consigli sul trucco.
Oltre a forbici e pettini, utilizzava anche mollette, forcine, e alcune pinze che, scaldate, venivano utilizzate come antenate dell’odierna piastra per lisciare o arricciare i capelli.
Quello della pettinatrice era un lavoro lungo e faticoso tenendo presente l’abbondanza della capigliatura di tante donne che amavano avere la chioma lunga da sistemare dapprima in trecce e poi raccogliere servendosi di ferretti, mollette.
Come detto si trattava di una pettinatrice che girava casa per casa, non si limitava a pettinare le sue clienti ma amava riportare sussurrando ai loro orecchi tutti i fatti soprattutto se piccanti appresi in altre case, per cui la pettinatrice era a tutta ragione considerata la pettegola del quartiere, quella per antonomasia. Va da sé che le notizie, apprese in gran segreto, circolavano subito, diventando di dominio comune.
Lò mestíje dé ténne passà
La vita dé faitàre gli-étte sta tuttuàje piàjene de fattíje. É ténne passà ó sevànte fattíje de le puttéje, passà da pàje a fiàue, fattíje de la campàgna ó neuziànte de ciarriére che i-allevànte a vénne lò cunte denghjé u paíje. ‘Nammuóre de mestíje i sunte cunghjí ó i sunte addeventà rare, i sunte sta sestetuí da fattíje ‘ndustriàle, leà a la vite du giuóre aví.
Lò mestíje mé róue ó sunte sta seíje seíje, ammagàre anzíje a lu sècule passà, le fattíje de la campàgne é l’allevamménne de lòs anemà. Deccànte a stó dò mestíje a-gn-evànte lò arteggiàne che i fescevànte lò ardégne pe putàjere fateà. Ó sevànte mulenàre, ferràre, falegnàme, breccelàre, scarpàre; ma avóje che i fescíve stó mestíje, pe putàjere campà é teríje devànne la famíglje, i teníve terrínne pe semenà és anemà da cràje. S’anna pa descurdà le fattíje é lò mestíje de le fénne: cultevà lòs òre é ate fattíje de la campàgne, sappunà, ammunnà lu bjà, strumpeneíje, da lu recciétte de la case a lu cutre, a fatijà é fére, da lòs enfànne a lu fa mengíje, a curnà lòs anemà de case; lu sfòreze de la famíglje a-éve sélle de fa tutte ‘ncase pe nun allà da lò arteggiànne a spénne sòlde.
Lu pecuràre
Gli-éve pabbúnne la vite du pecuràre. Sénze rénne, luntàne da la famíglje é da lu paíje, ma a-éve la vita sjà, che se l’éve capà íje; ó venevànte appremmíje lòs anemà é dappóje la famíglje. Se putíve pa lescíje da sule la mandre de pécure se nun pe cache àure, tuttuàje dessò lòs íje de ‘n’ate pecuràre ammíche, che i fecíve la stéssa vite. La giurnà sjà i-abbijàve appremmíje che ó saglísse lu seruàje. I ‘mbezzàve lu fuà é se preparàve a trére, cunte che i fescíve avóje la néje decchírre s’areteriàve da ciampeíje. Lu pecuràre i campàve pe lòs anemà sinne, i quanescíve le pécure vunne a vunne, le chiammàve pe nunne, ó abbastàve che le tucciàsse dò la manne, de néje, pe le requanàjere é i savíve cumme s’ava cumpurtà dò ciacúnne de ise.
Lu pecuràre anziàne é ‘spiérte se affacciàve a l’àreche de la pòrete pe vedàjere se lu ténne gli-éve bunne ó ava fa maténne, dappóje i descíve se s’avànta caccíje le pécure a ciampeíje ó nu. Alliégre é fescànne, dò l’allerézze denghjé lu cuóre, s’abbijàve pe le mezzàne; se purtàve la panettére, ‘na besazzèlle de tàjele, andó i-ave màje un stuózze de panne é un pezzariélle de case, lu cuttéje denghjé a la saccòcce é appenní u bra lu scrijàte. Lu cinne tuttuàje a cartíje a íje i cemenàve pé trattàue che i fescíve ciàche giuóre resperànne àrja fine a permúnne piénne. Ó vóle pa ‘na móce attuórne a íje, le pécure i ciampejúnte a beccúnne piénne. Lu seruàje i cale! Se tòrne a la massarí. Dappóje trescí, barrà lòs anemà denghjé a la custére, dappóje denà da mengíje é cinne ‘na utèlle de panne é letà, lò pecuràre se putúnte jòre arrepusà é penzà a ise.
Lu campagnuóle
La fattíje du campagnuóle a-étte sta tuttuàje la mé pesànne, é s’ava sta bunne ’nsannà é s’ava adattà a tutte lò ténne de la campàgne: a-étte la campàgne a decíde decchírre s’anta auzà lu mattínne é a s’i-allà a checíje la néje, é a-étte tuttuàje jíglje a dirre decchírre s’anta fa le fattíje deffuóre. S’abbijàve a fatijà lu mattínne premmíje de satre lu seruàje é i cunghijevànte la néje a la schiérte.
La fattíje dé campagnuóle i cunghíve pa màje, l’anne i-abbijàve dò la sémene.
Premmíje de semenà lu campagnuóle i-aràve lò terrínne, i cacciàve le piére mé ròse, i spruuàve le fratte. I mettíve lò cullàre é mule, i-astacciàve la rare é i-aràve lò terrínne.
La rare gli-éve fé accussí:
Valanzòle: i servíve pe astaccíje lòs anemà; se lòs anemà ó sevànte dò se mettíve ‘nfacce la cartòcce la capevalanzòle, che gli éve féje da ‘na ‘nginne, pe la fessà a la cartòcce é de dò anéje andò fessà le valanzòle de lu paràje.
Aste: gli éve fessà u dentà. Gli-éve ‘mpúue ‘ncurvà, dessò, se gli éve de bóue (ratíne). Se gli éve terijà da lò búue, l’aste i-ava étre mé lunge pe putàjere astaccíje dràje a lu giàue a lu cuóve é gli-éve fessà dò lò chiuuètte cassennú i sganciàve. Se gli-éve terijà da lò mule, l’aste gli-éve mé chiérte é i-ava teníje la cartòcce é la tire devànne, pe la putàjere aggangíje dò la valanzòle.
Vínghje: a-éve ‘na masse de bóue che i sèrve pe fessà l’aste u dentà é pe reulà canne s’ava arà affúnne.
Telíje – dentà: a-éve lu dessò de la rare. Gli-éve de bóue díje é massízze é i servíve pe manteníje lu búmmere. Lu derríje, che i cunghíve a fuórme de “L” pe métte la manécchje, gli-éve mé large pe rumpe mé prèste le témpe.
Búmmere: i teníve la fuórme allungjà é pezzúte é i servíve pe ‘nfeccíje la rare denghiénne u terrínne. Gli-éve fé da un piézze de fére a fuórma sdrèuze, dò ‘na zénne ‘mpúue ‘ncurvà é un piézze affelà, che ‘nfecciànne denghiénne u terrínne, i spezzàve zénne de terrínne da capeveríje. Lu spígule che i tagliàve, gli-éve tuttuàje màje de sguínce a cumme i veníve terijà. Lu búmmere gli-éve astaccjà a l’aste dò de lò bullóne, che se ‘nfeccevànte denghiénne lò caúte de lu búmmere, se culleghevànte a l’aste, pe étre, dappóje strènne dò la chijà. Lu búmmere i pútíve étre dràje ó ‘ncurvà ‘nghiòcche ó ‘ncavà. Pe lò terrínne brecchjà se ausàve sélle ‘ncavà. Decchírre lu búmmere gli-éve cunzemmà i veníve accunzà dò la fòrze é battí ‘nghiòcche la ‘ngúdene.
Manécchje: la manécchje i servíve u muénne pe tuccíje lu paràje. Gli-éve fé da vunne ó dí masse che i cunghievànte dò dí maníglje pe ageulà la ‘mpugnattàure, gli-éve màje u derríje de l’aste.
Alétte – uréglje: a-éve l’ardégne che i fascíve capeveríje la témpe de terrínne tagljà da lu búmmere.
Canécchje: i servíve a bluccà la manécchje u dentà.
Tire – rullattàue: a-éve ‘na masse de fére andó i veníve aggangjà la valanzòle.
Cartòcce: i servíve a bluccà l’aste. Le rare de fére i sevànte quàse cumme a sellé de bóue, la defferénza mé róse a-éve che i tenevànte ‘na rócele che i servíve pe reulà la prufundettà de l’arattàure.
Se ausevànte dò tipe de rare:
Pertecàre–filatère: i teníve lu búmmere fisse é, persú, se putíve arà sule denghién un viérse. I veníve ausà pe arà terrínne ‘mpiàne andó se putíve arà geriànne attuórne attuórne.
Vòtaurécchje: i-avíve lu búmmere che se geriàve.
Lò mule é lò búue i venevànte aduperà pe arà lò terrínne, tuttuàje a paràje.
Lò uarnemménne du mule che i-ava arà ó sevànte:
Cullàre: petturà féje a fuórme de triàngule jempí denghiénne de pàglje é deffuóre gli-éve féje de quàjere; la banne che i-appujàve ‘nghiòcche la béte gli-éve de tàjele. A lu cullàre se mettevànte lò fescàle, che ó sevànte piézze de bóue allungjà dò de lò càute andó se fescevànte passà lò zucúnne.
Decchírre a teríje la rare ó sevànte lò búue le ciuóse i sevànte de ‘n’ata maniére. Lò búue i purtevànte lu giàue che a-éve un piézze de bóue a fuórme de miéce linne che s’appujàve ‘nghiócche u cóue de l’anemà é gli-éve astaccjà pe ‘nganne dò lò cullàzze che i ‘nfeccevànte ‘nghiénne a dò caúte féje ‘nghiòcche lu giàue é i sevànte fessà dò lò chiuuétte. La rare i teníve ‘n’asta lunge che i veníve fessà denghiénne lu cuóve é barrà dò un chiuuètte. Lò búue i venevànte tuccjà dò de le còrde lunge astaccjà a le còrne a le murgètte. Lò búue i sevànte pa ‘na muórre ausà a Faíte pe arà lò terrínne.
Dappóje l’arattàure de lò terrínne se semenàve. S’abbijàve vèrse la fine de settèmbre dò la sémene de la vàjene. Lu terrínne i veníve spezzà a pòreche, se fescíve accussí pe semenà megliàue la semménze. La pòreche i teníve la mesírra sjà a secónde de la semménze. La semménze de la vàjene i veníve semenà a dò viérse andàte é ritòrne; lu bjà ‘nvéce sule denghiénne un viérse: se descíve sémene a vunne arche ó a dò arche. La vàjene i veníve semenà a dò arche pe dò mutíve: vunne pettócche gli-étte mé liéce de lu bjà, póue pettócche i sciúle mé púue é cache àcene i-arrumaníve denghiénne le manne. La semménze, specialménne lu bjà, i veníve serní dò lò cernícchje pe luuà tutte la spurchízje é teníje sule lòs àcene megliàue, póue, i veníve lavà ‘nghjé a tenèlle róse é ascí u seruàje; cache giuóre appremmíje de la sémene, i veníve ‘nturchení, ó veníve menà la piéra turchíne che i renníve la semménza pabbúnne a mengíje pe lò scéje. Lu mattíne de lu giuóre de la sémene, lu campagnuóle s’auzàve prèste, pe le catte, dappóje che i-ave pulzzà la stalle, ciargjà la semménze é lòs ardégne ‘nghiòcche la barde, se i-allàve deffuóre. Dappóje terjà le pòreche i semenàve. La fénne, quàse tuttuàje, i strumpunijàve. Decchírre se cunghíve de semenà, u cartíje é ‘n’ate lu terrínne gli-éve sta ciappijà da le béte decchírre se gerievànte; persú s’aràve ‘na miéce pòreche de lunghe pe fa veníje ‘n’ópra bunne. St’arattàure se chiammàve reccàpete. Se pu terrínne ó cemenàve l’éje denghién la vernàte, se terievànte de lò suórche pe la ‘ncanalà. Stò suórche i sevànte dò sciacquattàue.
Pe semenà s’ausevànte le besàzze ó giammíne, andó ó veníve màje ‘mpúue de semménze. Pe putàjere prénne megliàue la semménze, lu muénne dò la manna mancínne i pregníve la zénne de denghiénne de la besàzze pe la fa averíje mé bunne é fauríje la fattíje. Ó capettàve ciàche tanne che lò crestiànne i tenevànte manche abbastànze bjà pe semenà persú s’allàve a lu pecchíje ‘mpriéste.
LU BARDÀRE
Lu bardàre éve un bé mestíje. I-avíva quanàjere bunne le péje de lòs anemà, cumme s’ava ausà é fatijà, i capàve selléje che l’abbusegnevànte é i-ava quanàjere avóje lò ciuà, le razze é le mesírre. I fescíve le barde pe le béte, fardéje é fardèlle pe le giumménte. Lu bardàre i fatiàve ciàche uarnemménne, cullàre pe paríglje a dò, a catte, a scíje ciuà. I teníve púue de stemménne é tanta pasiénze é quanescénze: dò la miécellíne i-ammeseríve lu quàjere, dò lu “lévaspígule” i-attunnàve le zénne, dò lu cuttéje i-ava taglíje lu quàjere, é póue i-ausàve avóje ‘s íglje róse, spave pe lu quàjere, lu sacche, pàglje ó fènne. Le barde é le fardèlle i tenevànte un telíje de bóue féje a mesírre (chiammà cuórbe); barde é fardèlle, muttí de pàglje, i sevànte de péje de vacce.
Denghiénne la fardèlle gli-éve de tàile pe assurbíje la sijà, deffuóre gli-éve de quàjere pe adderà mé a lunghe. La fattíje de lu sellàre gli-éve pa sémplece pettócche i-ava savàjere bunne cumme se fatijàve lu quàjere pe fa avóje bríglje, cappístre,fàjesce, pettócche ó ulevànte tante ualettà de quàjere é avóje de ate materjà mé cenéje. Própete rase a l’úseme làue ó nescítte lu cullàre, accussí se sfruttàve la fòreze de lu piétte é de l’ accucchiattàure de le béte.
A Faíte le fardèlle s’accettevànte a le férje é accussí lò sellàre denghjé l’anne s’avànta sule accunzà decchírre i scasscevànte. Lò derríje bardàre de Faíte ó sunte sta Mastri Antonio (La Recciólíne), Altieri Michele é Raffaele (Nebbelóne), Monaco Antonio é lò dò fiàue (l’Abbruzzàje) é Marella Nicola (Masaniélle).
LU ARSÚNNE DE PUTTÉJE
Denghjé lò paíje nóte ó stevànte ‘na muórre dò lu mestíje a le manne: falegnàme, sarte, scarpàre, zucàre, sellàre, carrettíje, stagnàre, barbíje…, é persú a-gn-evànte ‘na muórre de puttéje. Ciàche puttéje i teníve lu arsúnne sinne (desscíbbule de lu mestíje). Le fegliétte é lò quattrà gjà da peccerílle i-avànta allà a se ’mparà lu mestíje, le fegliétte lu mestíje pe fíglje é lò quattrà lu mestíje pe quattrà. La ‘struzziúnne gli-éve pa pe tutte quànte.
Savàjere lire é scrire i denàve pa lu panne é allà a la scóle ó veníve a dírre luuà lò bra a la fattíje de lò terrínne. Le famíglje gjà de la ittà de la scóle i fecevànte abbijà ló fiàue a fatijà ó cumme arsúnne de puttéje ó cumme arsúnne de mandre accussí i-aiutevànte la famíglje purtànne a la case un “mezzètte” de bjà é un litre de uàjele a lu màje pe la famíglje, mengíje é durmíje pe ise. L’arsúnne de puttéje i-avíve pa rénne decchírre i fescíve lu desscíbbule, lu mastre, a piascíje, i denàve cache ciuóse a le féte ó decchírre se cunghíve ‘na fattíja róse.
Lu mattínne lò quatracchiòtte i-allevànte a la scóle, lu dappóje mengjà i-allevànte a la puttéje. Ise i fecevànte lò desscíbbule pe dòs anne ó méje, a cumme i resaglievànte a se ‘mparà. Lò genettàue de lu quattrà i pajevànte pa a lu mastre é lu mastre i pajàve pa a lu quattrà.
Denghiénne la puttéje se ‘mparàve lu mestíje é cumme s’éste u munne. Éve avóje lu mastre che i fescíve de lu desscíbbule un muénne. Lu desscíbbule pe tutte la vite i-are aví respètte pe lu mastre.
L’ARE DE LÒ CISTE
‘N’ate muénne che se atturnijàve de ‘nfanne é crestiànne che lu remerievànte bucce avère a-éve sélle che i fescíve lò ciste é lò paníje. íje i-ava fa dò lò giúnche é le véteche, tante cunte é cuntariélle. I truuàve lò giúnche, i luaàve la scòrege, lò tagliàve é lò mettíve denghjé a l’éje accussí i-addeventevànte mé cenéje é se putevànte fatijà megliàue.
A-éve ‘na fattíja lunge é mafà da sule. De giuóre i geriàve pe le campàgne é pe le padúle pe truuà lu bóue é la néje dò sa meglíje i pulezzàve é i tagliàve lò giúnche. Spisse denghjé la puttéje a-gn-evànte tante ciste, paníje, ‘mbagliatèlle é dameggiàne allenejà: premmíje de vetegníje a-gn-evànte dameggiàne da ‘mbaglíje, funne ru da reparà, buttegliúnne é carabbèlle da ‘mbaglíje accussí i rumpevànte pa dò le bòtte a l’assaccràje. Lò ciste ó sevànte le megliàuse ópre pe bellézze é ualettà. A-gn-evànte ciste de tutte le maniére é de tutte le fuórme, da lò mé peccerílle a lò mé róue. Ciste, cestiélle é cestúnne. Pe lu panne, pe la frutte, pe lòs íje, pe la menèstre, pe la pàglje, pe le piére, cestiélle pe allà a la scóle, fescèlle pe lu case é pe la reccòtte…, dò un mange, dò dò mange, rettúnne, lunge.
Lu derrí muénne che i quanescíve l’are de lò ciste é sta Patrevita Domenico.
Le fattíje pòrete a pòrete
LU ‘MBRELLÀRE
“Lu ‘mbrellàre!! È arrivate lu ‘mbrellàre!!! Chi tène lu ‘mbrèlle d’aggiustà, ascesse fore!”. A-éve lu banne che i menàve lu ‘mbrellàre che i veníve da lòs ate paíje, pe le ciarriére de lu Faíte decchírre ó abbijàve la vernàte. Chiammà da le fénne che a-gn-evànte ‘ncase, lu muénne i pregníve a le manne é i remmeriàve lu ‘mbrèlle é dappóje i descíve “Signora, lo faccio tornare nuovo”. La bunna fénne sparagnatríce i pattuíve lu prèzze premmíje de accurdà la fattíje. Jíglje i-ulíve étre seíje sénze manche ‘na brítta nutízje. Dappóje i denàve lu ‘mbrélle, é dessò lòs íje de la fénne, assettà ‘nghiòcche u descialíje de la case, i-accunzàve le bacchètte, i addrezzàve la ròbbe de ‘nghiòcche, i cuntrullàve lu bettúnne che i-avíre é i bare lu ‘mbrèlle é i mettíve cache stizze de uàjele. Sule addúnche i-auardàve de se métte denghjé la saccòcce lu uadàgne. Cunghjí la fattíje, s’i-allàve pe les ate ciarríere menànne lu banne: “Lu ‘mbrellàre!!!! È arrivàte lu ‘mbrellàre!!!”.
SÉLLE CHE I-ACCUNZÀVE LÒ CARTELLÈ
Na vàje ó pettócche lò sòlde ó sevànte púue ó pettócche lu sènze de lu sparàgne é de la ‘cunemí gli-éve arradecà, premmíje de spénne ‘na lire se pensàve bunariélle. Se pruuàve a sparagníje ‘nghiòcche a ciàche ciuóse é se stàve tuttuàje attiénte a su che se putíve é se cundíve spénne sénze gettà lò sòlde.
Persú lu muénne che i-accunzàve lò cartellè gli-éve auardà da tutte le fénne.
Cumme un cartellè, ‘na spase, un bucchíje, avóje se gli-éve chjú nóue, i rumpíve ó i crepàve, s’ava accunzà é s’auardàve sti muénne che dò le quanescénze é le manne síje lò fescíve turnà nóue.
A-éve un muénne che i geriàve pe lò paíje, pe le ciarríere dò la buórse de ròbbe piàjene de lò stemménne de lu mestíje: tràpene a arche, ‘ntanàglje, férefelà, pinze, gésse, cinge pulíte é cache buàtte de còlle.
La fénne i saglíve a la pòrete é lu chiammàve pe fa vedàjere lu cunte ru. Ó putíve étre un carciúnne, un cartellè, ‘na spase é lu muénne lu remeriàve attiénte attiénte.
Se ó valíve la pàjene a accunzà lu cunte, i abbijàve la fattíje.
I fescíve lò caúte dò lu tràpene a arche, de bóue, attuórne attuórne a andó a-éve ru é cumme lò dò piézze i sevànte uní é la crépe se vejíve chjú, i passàve lu férefelà pe lò caúte, i fescíve lu nàue é ‘nghiòcche i mettíve la còlle.
Dappóje un paràje de menúte i passàve dò ‘na lima peccerélle ‘nghiòcche lò nàue de férefelà, é dappóje i passàve lu gésse.
Cumme ó ascijàve lu gésse, i vijíve se la fattíje gli-éve saglí bunne é i-auardàve la pàje. I-abbijàve arríje a cemenà é a geríje pe le vi de lu paíje, rengrasiànne Debbenàje pettócche avóje sélle giuóre i putíve purtà lu panne a ciallàue, a só fiàue é a sa meglíje.
La fénne i cuntrullàve la fattíje: i jembíve lu cuócce d’éje é i veíve se i culàve. I fescíve vedàjere a só fiàue la fattíje é lò raccumannàve dò lu bunne é dò lu pabbúnne de sta attiénte a nun fa dammàce, ca se nu i-accettàve spase é cartellè de bóue.
A Faíte cache crestiànne s’éve ‘mparà bunne sti mestíje:
Giovaniello Nicola (Gneccariélle)
Lips Francesco Saverio (Zizí)
Rubino Consalvo (Cunzàlve)
L’AMMULAFUÓRBECE
L’ammulafuórbece i bettàve chiàne chiàne lu carruózze pesànne dò la rócela róse pe le vi de lu paíje. Devànne, ‘nghiòcche u carruózze, a-gn-evànte le móle che i venevànte umelí dó l’éje che a-gn-ave denghjé a ‘na buttíglje ‘nghiòcche la móle. Se ‘mbuntàve é i abbijàve a ammulà cuttéje, tagliànne, rasàue é sfèrre di ciàche maniére che le fénne i purtevànte. Dò un muumménne tuttuàje a la stéssa maniére de lu pjà i ciaciàve un pjà de bóue, che i fescíve geríje le móle dò la còrde é dò la pulégge.
LU LATTÀRE
Tutte lò giuóre lu mattínne prèste ó arrevàve denghjé lu paíje lu lattàre. Cumme tutte lòs ate muénne che i-allevànte geriànne, lu lattàre i parlàve dò lò crestiànne é i uadagnàve la fedúce é le cunfedénze làue. Lò cliènte sinne ó sevànte ‘na muórre é avóje le famíglje mé ricce l’auardevànte chiàche mattínne.
SCARDALÀNE
‘Na muórre de mestíje i gerievànte attuórne a lu munne de lòs anemà.
La lane i veníve pa venní tutta quànte. ‘Na pare i veníve preparà pettócche dappóje le fénne i fescevànte lò dra pe tutte la famíglje. Persú ó nescítte lu mestíje de lu scardalàne.
Lu scardalàne i-arrevàve denghjé lu paíje a premavére, decchírre lò faitàre i cunghievànte de carusà lòs anemà.
Ciàche famíglje, nun sule chi i teníve ciévere é pécure, i teníve la lana carusà da cardà pe la fa addeventà tutte uuàle é cenéte é póue da felà dò lu fíje a manne pe fa, dò le àbbele manne de le fénne, dra cjà é cenéje: màglje, cauzètte, muttànne, sciàrpe, mantèlle, bartínne… lu spessóre de lu fíje i cangiàve secónde l’use che s’ava fa. Dappóje se passàve a lu ciavéje pe fa le matàsse che s’avànta lavà bunne é dappóje se fecevànte lò rumusscéje. Ciàche case i teníve lò stemménne necessàrje.
Accussí la lana naturàle ó addeventàve un fíje finne é tutte uuàle ó un mante cenéje a cumme i cummanàve la fenne.
La lane gli-éve biànge ó nàjere, lò dò culàue naturàle, ma, se s’ammachievànte se putevànte utteníje tante tipe de grigge.
Sta fattíje gli-éve ‘na muórre útele pettócche i-ajutàve la fénne.
Chi se putíve pa permétte de cardà la lane i-ava felà sélla naturàle é su a-éve mé deffícele é s’i-allàve mé ‘na muórre de ténne.
Jòre se utelezzúnte màchene velóce.
CAPíLLE CAPELLÀRE
Avàjere lò pàje béje é lunghe a-éve ‘na ciuósa ulióse da tutte le fénne.
Un ténne pe fa tutte ciuóse se usàve matrijà naturàle.
‘Na vàje a la summàne ó veníve lu capílle capellàre che i menàve lu banne: “O capellàre!!! o capellàre!!!”.
Le fenne, dò les auréglje avèrete a lu banne de lu capellàre, se affaccevànte a l’àjefe de la pòrete é lu chiamevànte pe lu denà lu tresuóre làue a cange de íglje, frettíne, spíngule, spèrchje é mullètte, pettenésse é piénne.
Manghe un pàje i-ava allà perdí, persú selló che i césevànte da la petténesse ó da le tagliànne decchírre se acchertevànte lò pàje, se stíjevànte tutte ‘nzènne denghjé ‘na sacchettèlla peccerélle che i veníve appení derríje la pòrete de lu suttàne.
Lu capellàre i purtàve u piétte dò ‘na fésce de quàjere, astaccjà dò ‘n’ata fésce a lò fiànche, ‘na casscètte che i teníve tante scumpàrte andó i mettíve la ròbbe pe fa a scange; i stàve attiénte attiénte decchírre i cuntàve les íglje, le spíngule… lu númmere i deppénníve avóje da canne la fénne lò ulíve róue. I stàve attíente attiénte avóje a cuntà lò frettíne pe lò pàje pettócche i-ava pa denà cacúnne de méje. Tante vàje avóje ‘nghiòcche u númmere de lò frettíne lu capellàre i sciarijàve dò le fénne.
LU FERRÀRE
Lu mestíje de lu ferràre i-allàve pà pà dò lu mestíje de lu campagnuóle, seíje pettócche i fescíve lò ferramménne pe fatijà la campàgne seíje pettócche i ferràve lòs anemà.
íje, dò la vandére de péje, dò paziénze é allerézze i ’mbezzàve lu fuà denghjé un brascíje róue é dò lu màntece i zuffíjave ‘nghiòcche lò ciarbúnne pe lò fa ’mbezzà.
I luuàve lu fére da lu zuócchele de lu ciuà é lu mettíve denghiénne. Lu fére accussí i-addeventàve mé fàcele é còmede da fatijà, ‘nghiòcche a la ’ngúdene i denàve la fuórme dò lò cólpe de mazzóle é martéje.
S’avànta fa avóje lò caúte pe ‘nchiuuà lu fére a lu zuócchele de l’anemà.
Dò un stemménne cumme lu geravíte i fescíve lò caúte précíse, a la mesírra giste.
Dappóje i rachiàve las ugne é i mettíve lu fére dò ‘na bòtta férme é seíje.
U derríje lu lemàve pe luuà lò deffètte. Lu ciuà i teníve accussí lò zuócchele nóue é gli-éve prónte a cemenà pe chelòmetre sénze delàue é dò mé fòreze.
Decchírre la béte i strepetijàve la mettevànte lu “’nturcinamússe”: a lu musse ó veníve ’ndurcenà un piézze de còrda finne astaccjà a un mange de bóue che i servíve a lu fa accalmà.
Se i denàve lò càuce se ‘mpasturàve: ó venevànte astaccjà lò píje.
Dò lò strmménne sinne, se lu pattrúnne i-ulíve, se putevànte lemà le dénne de lòs anemà pe lu fa parescíje mé gióne ó se putevànte scarnà le genzíje pe lu fa parescíje mé viàje (su i fescíve bunne a lu pattrúnne sénze penzà ra lu binne de l’anemà); i luuàve, dò un stemménne fé fuà, la “fafe” che lu fescíve pa mazzeccà bunne; u derríje i carusàve avóje l’anemà.
íje i teníve a che fa dò tutte quànte, pettócche ó sevànte ‘na muórre lò fenemménne che i crijàve pe lò fatiattàue: rare, martéje pe lò frabbecattàue, malinpègge, fasíglje, sappe, sappúnne, prudènte, scarpiélle, cettóle, mascattàure.
Pe fateà, lu ferràre i teníve ‘na puttéja peccerélle, andó a ‘na banne i mettíve lò rare é a ‘n’ata lò stemménne mé peccerílle. I teníve la fòrge dò la cappe pe lu teràgge; ‘nghiòcche a-gn-evànte appujà le ’ntanàglje de tante mesírre, deccànte la fòrge a-gn-ave un sícchje pién d’éje pe addefreddà lu fére fé fuà.
Lu ferràre i mettíve lu fére dessò la brase pe lu fa ’nciatà é addeventà mé sémplece da fateà. Decchírre lu piézze gli-éve róue i veníve fateà da dò ó tràje muénne (lu mastre é dò desscíbbule), che a ritme i denevànte dò la masse ‘nghiòcche lu stésse puènne sénze de se ‘ncrucíje. La ’ngúdene i stave ‘nghiòcche un ciòcchere róue é pesànne che se spustàve màje.
Lu ferràre gli-éve mé ’mbeccjà decchírre se aràve é se semenàve, pettócche i-ava accunzà lò rare.
Lò derrí ferràre de Faíte:
Cocca Leonardo (Mastaddúcce) |
Cocca Luigi (Mastaddúcce) |
Girardi Luigi (la Fruste) |
Finaldi Regolo (zi Rèule) |
Forchione Carmine (Anariélle) |
Ciarmoli Redente |
Finaldi Domenico (Mastattàvje) |
Maiocco Luigi é só fiàue Regolo é Ludovico (Mastaurèlje) |
Guerrieri Mario (Prènzapanúnte) |
Forchione Leonardo é sun fiàue Luigi (Anariélle) |
Pavia Fedele (Presútte) |
Antonelli Leonardo (Preutàcchje) |
Gallucci Leonardo (Ciaccafiérre) |
LU SCARPÀRE
Lu scarpàre i fatijàve citte citte da lu mattínne a la néje, accumpagnànne lò penzíje sinne é la fattíja sjà dò la remmàue de lu martéje ‘nghiòcche lò chiúue appujà ‘nghiòcche a la sóle de le scàrepe scasscjà.
Ma ó abbastàve che ó intràsse cacúnne che lu scarpàre i abbijàve a parlà de tutte lò cunte de lu paíje, ménne i-appezzeccàve tacche é sópatàcche, fíbbje é mascheríne, sóle é miécessóle.
Lu scarpàre i teníve tuttuàje, deccànte a lu banchettiélle andó i fatijàve, ‘na pile de scàrepe da accunzà; i teníve tutte sélle che ó servíve pe fa ‘na bunna fattíje: fuórme de fére da le mé peccerélle a le mé róse, un cuttéje appòste, la lime, la súglje, lò martéje, la ‘ntenàglje, lu spave, lò chiuuílle de ciàche fuórme é ‘randézze, centrélle, la sire, la péce, lu brite pe allesscíje le sóle. Ciàche cunte i teníve lu pòste sinne.
Dò la téta calà ‘nghiòcche lu banchettiélle, dò lu sunà de péje ó de tàjele, lu scarpàre, i denàve, i cusíve, i ‘ncullàve tutte lu giuóre é decchírre a-éve bónténne, i fatijàve illé devànne, andó tra ‘na chiàcchiere é ‘n’ate, ó passàve lu ténne.
‘Na muórre ó sevànte lò desscíbule che i-allevànte a ‘mparà lu mestíje é citte citte i stevànte a sentíje tutte lò seréte de lu maéstre de la puttéje: cumme métte lò chiúue, cumme ausà ‘ntanàglje é martéje sénze de se fa mà lò dàje.
Accussí, giuóre dappóje giuóre, i ‘mparevànte tutte ciuóse, ‘nzíje a ‘mparà a fa le scàrepe.
Lu scarpàre i-accunzave le scàrepe ma le fescíve avóje, seíje sellé pe la fattíje ché sellé bunne, pe satre.
Lu derrí scarpàre faitàre é sta Leonardo Guerra, Zi Nardíne.
La puttéje de lu scarpàre a-éve ciallàue pettócche i teníve abbusènne de púue de lòcche pe fatijà: ó abbastàve sule lu banchettiélle.
Ate vàje la puttéje a-éve la case de lò cliènde andó lu scarpàre é lu desscíbbule i-allevànte a fa le scàrepe a tutte la famíglje. I mengevànte é i stevànte tutte la giurnà illé.
Lu premmiéra ciuóse che lu scarpàre i-ava fa a-éve sélle de prénne le mesírre dò ‘na strissce de càrete andó i fescíve le ‘ntacche pe ciàche mesírre da prénne. La premmiéra ‘ntacche a-éve sélle pe la lungézze de lu pjà, la secónde pe la largézze, la tèrze pe lu cóue du pjà. Se ó sevànte scàrepe àute a-gn-ave ‘n’ate pe lu spezzílle. Lu scarpàre i fescíve la scàrepe própete ‘nghiòcche a mesírre. Se lu pjà de lu crestiànne i teníve cache ceppúlle ó lò calle, lu scarpàre i mettíve, premmíje de la métte la cuppére, un riàlze, accussí la scàrepe i-addeventàve mé còmede. ‘Na vàje pràje le mesírre, lu scarpàre i tagliàve lu muódele de la scàrepe de carde. ‘Na muórre de vàje lò tenive gjà prónte, pe uadagníje ‘na ziche de ténne. Dappóje ‘nghiòcche a selló muódele i tagliàve la cuàjere. Addúnche i mettíve ‘nzènne tutte ciuóse.
Lu scarpàre pe premmíje i cusíve lu fòre, che a-étte lu derríje de la scàrepe. Dappóje i mettíve ‘nzènne tutte le pare: se cusevànte la cuppére é lu diétre dò lu fàmece, accussí a-éve féje lu cartíje de ‘nghiòcche de la scàrepe. Pe le métte ‘nzènne se ausevànte né chiúue né còlle. Se ausàve sule cútere dò lu spave. Lu spave i veníve preparà da lu desscíbbule: i putíve étre a tràje, catte é a mé de fíje, ó depenníve da la scàrepe, da la cuàjere ó da la sóle. Dappóje i veníve bagnà da lu scarpàre denghjé la péce é la puènte i veníve féje dò ‘na sétele de cajúnne. Pe strènne lu spave, é pe nun se taglíje le manne, lu scarpàre i tenive accarruugljà la manna mangínne denghiénne un uardiúnne, che a-éve ‘na strissce de cuàjere.
A sti puènne se passàve a ‘ntaccíje la cuppére dò la chiantèlle. Cunghjí de ‘ntaccíje se passàve a cutre lu uardunciélle, la cuppére é la chiantèlle. Manu mane che se cusíve, andó éve sta màje lu puènne se luàve la puntíne é se passàve a jempíje lu vaccànne dessò la chiantèlle, accussí decchírre lu crestiànne se mettíve le scàrepe, lu pjà i-allàve pa a vaccànne ma i-appujàve ‘nghiòcche lu díje. Pe jempíje sti vaccànne, se ausevànte strissce de cuàjere che a-éve lu sfridde de su che a-éve sta ausà pe fa la cuppére.
Cunghjí de jempíje lu vaccànne se passàve a cutre la sóle dò lu uardunciélle.
La sóle i veníve màje a bagne pe la fa ‘ncenetíje é dappóje i veníve battí dò un martéje ‘nghiòcche ‘na piére ó ‘na fuórme che lu scarpàre i teníve tuttuàje ‘nghiòcche lò genuàje.
Dappóje màje la sóle, la scàrepe i veníve refení luànne tutte lò sbuórde é appréje ó venive màje lu tacche. Appremmíje se mettíve, ‘nghiòcche la sóle, ‘na strissce de cuàjere pe métte ‘mpiàne lu lòcche andó s’ava métte lu tacche. Póue, ó depenníve da canne i-ava étre àute, se mettevànte, vunne ‘nghiòcche a ‘n’ate, tanne strissce de cuàjere, fé de lu scarte, ménne u derríje ó veníve màje lu sópatàcche de sóla bunne.
Pe renfuórze é avóje pe fa adderà mé ‘na muórre la sóle é lu tacche, ó venevànte màje le “pòste”, che ó sevànte chiúue fé da lu ferràre dó sellóue scartà che se ausevànte pe ferrà le béte, é le “cendrélle” che i tenevànte la còccja squadrà é se mettevànte a dí file tuórne tuórne la scàrepe, ménne u miéce se fescíve ‘na róse ó fé de núue ó de sése chiúue a secónde de canne gli-éve róse la scàrepe.
Cunghjí de fa la scàrepe se passàve a la refeníje, premmíje dò un cuttéje pe luuà giste lu róue, póue dò la rasspe pe abbijà a la fa mé lissce, appréje dò un piézze de brite pe l’allesscíje mé megliàue é u derríje se ausàve lu “piéde de puórche”, che a-éve un mange fé de bóue dírete, quàse tuttuàje des aulíve, che passà ‘nfacce u buórde de la scàrepe la fescíve addeventà lissce. Pe derríje le scàrepe se tentevànte dò lu vetrejuóle é lu négrefúme.
Pe le scàrepe “bunne” ó venevànte utelezzà matrijà megliàue, se usàve la péje, ó venevànte màje lò puènne mé finne é pe la refeníje i mettíve la sire.
Denghjè ‘na giurnà lu scarpàre i resaglíve a fa un paràje de scàrepe.
Pe la fattíje che i fescíve, lu scarpàre i veníve pajà decchírre se muscenàve ó decchírre se tijàve lu cajúnne.
Lò scarpàre che ó venúnte arrecurdà a Faite ó sunte:
Pirozzoli Vittorio (Pruzzelícchje), Capuano Michele é Mario (Ducènte lire), Carosielli Michele( Zi Chelíne de Giambattíste) | |
Carosielli Leonardo (Zi Ducce) | |
Carosielli Antonio (Zi Jucce) | |
Carosielli Giovanni (Giambattíste) | |
Carosielli Mario (Manòtte) | |
Carosielli Giovanni (Giambattíste) | |
Carosielli Antonio (Scarpariélle) | |
Capuano Leonardo (Ducènte lire) | |
Campanielli Giovanni (Nanníne lu zuóppe) | |
Matrella Raffaele (maste ‘Mbriamíne) | |
Capozzielli Leonardo (Petrecciélle) | |
Campanaro Rocco (Pallóne) | |
Campanielli Elia (Cavaliére Píccule) | |
Castielli Nicola (Alèsje) | |
D’Angelico Carmine (Federíche) | |
De Girolamo Vito (Davídde) | |
Gallucci Pasquale (Tagliafàcce) | |
Girardi Emanuele (Maste Manuèle) | |
Guarnieri Giuseppe (Castiélle) | |
Longo Pietro (Piétrelònghe) | |
Marella Giovanni (Gianí) | |
Pastore Prospero (Ciuchítte) | |
Spinelli Michele (Jèlle) | |
Tangi Prospero (Marconére) | |
Sassolino Salvatore (lu Beccaràje) | |
Pavia Nicola (fiàue de Zjà Prospera de Cestunètte) | |
Longo Antonio (maste Antònje) | |
Zullo Leonardo (Meccúse) | |
Valentino Antonio (Cestariélle) | |
Cavoto Michele (Cavòte) | |
Flumeri Antonio (Campuzzóne) LU CAMPESANTÀRE ‘Na muórre de vàje a-éve un falegnàme. I fescíve lò taúte de bóue é lò fatijàve a manne; lò taúte i sevànte crevère dò lu line ó de ata ròbba biànge. Lò campesantàre ‘na muórre de vàje i tenevànte gjà catte sinche taúte gjà prónte. A Faíte, ‘na muórre ó sevànte le meglíje de lò campesantàre che i-allevànte pe le case de lò crestiànne che i stevànte murànne pe vénne lu taúte é pe uadagníje lò sòlde. Zjà Nardína la Róssce, Ceciarèlle, Maríja Lucíje i-allevànte a ciallàue de lu malàdde desciànne: “M’é vení a fa vísete! Se dappóje avíje abbusènne me chiammà”. Se la famíglje de lu mòre se putíve pa permétte lu taúte se fescíve de ‘n’ata maniére. ‘Na fénne i-accunte: “De rempètte a la case de Zja Pellécchje, a la ghise du Priattóre, a-gn-ave ‘na purteccióle che i purtàve a ‘na ciambre andó a-gn-evànte lò taúte de la Madònne é de lu Priattórje; le famíglje purèlle i pregnevànte ‘mbriéste vunne de lò dò taúte pe purtà lu mòre u campesànte. ‘Na vàje u campesànte se ‘nchiuuvànte catte tàule é se mettíve lu mòre denghiénne, dessò u terrínne. Chi i teníve le chjà de sta pòrete a-éve Zi Pròspe de Ceccóne”. Lò derrí campesantàre che i fescevànte lò taúte a manne ó sunte sta: Pérzéchíne, Monaco Lorenzo (lu Beccaràje), Palma Arturo (Maste Artúre), Zi Necòle de Maríja Lucíje é Zi Pròspe de Ceciarèlle. LU FALEGNÀME Lu falegnàme a-étte vunne de lò mestíje mé antíche, ma u giuóre d’aví lò gióne l’apprezzúnte pa pe rénne. Lu falegnàme de ‘na vàje i-ava savàjere fa tutte ciuóse, i fescíve líje, cumò, àrece, méje é tutte su che lu crestiànne i pecchiàve, sénze l’ajúte de le màchene, fatijànne sulamménne dò stemménne sémplece: tràpene, séghe, chianuózze, martéje, chiúue, rasspe. ‘Na muórre de vàje i fescíve avóje lò taúte. Le fattíje de lu falegnàme i sevànte sémplece é i custevànte púue, cache vàje i fescíve mòbbele mé raffenà, de lusse é tutte ‘ntarsjà pettócche púue ó sevànte lò crestiànne ricce che se lò putevànte permétte. Vijànne ‘na ziche tócche i fescíve lu falegnàme decchírre i-ava fa ‘na pòrete. Decchírre la pòrete a-éve sélle che i denàve illé devànne, lu bóue i-ava étre díje accussí che i putíve pa étre mengià da lò tarle, i-accarulàve pa é i resestíve a lu maténne. Un pruuèrbje antíche i dirre: lu falegnàme i mesíre dí vàje pettócche i taglje ‘na vàja ‘ntutte. Pe su lu falegnàme i fate appremmíje la pòrete é dappóje lu telàre. Ó puótte ‘ngappà che avóje meserànne dí vàje se fate cache sbàglje liéce che se puótte accunzà fatijànne ‘nghiòcche lu telàre. Dò lò “restúnne” ó venevànte féje le fésce de le pòrete. Póue se passàve lu “segnattàue” tuórne tuórne la fésce pe denà lu spessóre giste, ‘Na vàje arrevà a la mesírra giste, ausànne lu chianuózze, se passàve a segníje le mécce. Decchírre la mécce gli-éve fummèlle, ‘na vàje segnà, se fescevànte lò caúte dò la taravèlle é appréje se ciavàve dò lu scarpiélle. Decchírre la mécce gli-éve màchje, ‘na vàje segnà, dò la “séghe d’assènnde” se tagliàve tuórne tuórne lu deffuóre, a sta maniére ó arumagníve la méccja màchje. ‘Na vàje féje le fésce é lò pannèlle, s’accucchievànte dò la còlle de pécja ciàte. Tutte sta fattíje s’ava fa canne mé prèste se putíve, cassennú la còlle i-addefreddàve é gli-éve chjú bunne. ‘Na vàje ‘ncullà se passàve arríje lu chianuózze pe luuà lu róue. Dappóje pe la fa addeventà mé lissce se passàve la “punta pulí” é u derríje avóje un piézze de brite. Cunghjí tutte se mettevànte le vertécchje ó lò mecciúnne. ‘Na muórre de vàje la fattíje a-éve pa sélle de fa pòrete nóue ma de accunzà le viéglje, decchírre a-éve accussí, lu falegnàme, i-allàve a fateà a ciallàue de sélle crestiànne che i teníve abbusènne de étre féje la fattíje é i mengiàve avóje a spàjese síje. Decchírre lu crestiànne i-ulíve sparagníje, i-allàve íje stésse a accettà lu materjà, ménne pe lu paimménne s’ava tuttuàje auardà lu ténne de la metènne. U giuóre d’aví lu mestíje de lu falegnàme gli-é ‘na muórre cangjà pettócche a-gn-ante le màchene che i-ante cangjà la maniére de fatijà. Lò terrí falegnàme de Faíte ó subte sta: De Girolamo Pasquale (Pasquariélle) Cocco Antonio (Júcce de Mengóne) Iannelli Domenico (Cannóne) D’Aulizio Romeo (Buózze) Benedetto Nicola (Marialucíje) Pavia Vito (Frascóle) Bucci Vincenzo (Bucciariélle) Monaco Lorenzo é il figlio Paolo (Lu Beccaràje) Patrevita Antonio (Ciurciélle) Cerrato Prospero é figlio Nicola (Ceciaròtte) Cerrato Antonio é il figlio Amato (Cassciàre) La Nave Nicola (Racciacchiélle) D’ambrosio Prospero (Cuppelícchje) Maglio Alfredo (Maste Alfréde) Savino Pasquale (Pérzéchíne) Carosielli Michele (Lu Ceccà) Buonsanto Antonio (Buónsànte) Palma Arturo (Mastre Artúre) Marella Giuseppe (Cuzzètte) Spinelli Domenico (Jèlle) A ajutà lò falegnàme, a-gn-evànte lò crestiànne che i-allevànte a taglíje lu bóue: Antonaccio Nicola é figli (Lu Casalburàje) Cerrato Antonio é figli (Lò Cassciàre) Forchione Nicola é figli (‘Ndríngule) Paoletta Carmine é figli (Capuràlmaggióre) Petitti Prospero é figli (San Pròspe) Rosiello Secondino (Secunníne) | |
LU MULENÀRE
Quàse tutte lò faitàre i fescevànte lu panne ‘ncase, dappóje che i-avànte accettà é macenà lu bjà u mulínne.
Lu mulínne i-ava étre róue pettócche i-ava pa teníje sule le màchene ma avóje lu lòcche pe le sacchètte du bjà é de la farínne.
Lu mulínne gli-éve féje accussí: a-gnà-ve un massètte de piére andó ‘nghiòcche ó geriàve velóce ‘na rócele avóje de piére; la tremmóje d’andó ó desceníve lu bjà che i veníve macenà é denà a lò crestiànne.
La farínna mé bunne a-éve sélla fine, che i teníve pa manche ‘na purcarí; dappóje a-gna-ve ‘n’ate che i custàve mé púue é gli-éve mé bunarèlle, é u derríje sélla mé scarte che i veníve accettà da lò puriélle andó pu miéce a-gnà-ve la caníglje é lu scàje.
Lu tipe de farínne i depenníve da la pusezziúnne de la rócele che i veníve reulà da lu mulenàre.
Lu massètte de piére é la rócele i sevànte crevère da un cassciúnne de bóue é ‘nghiòcche a-gn-ave la tremmóje, tuttuàje de bóue, andó se gettàve lu bjà.
La farínne che ó saglíve da la rócele gli-éve ciàte i veníve addefreddà cumme i-allàve a cunghíje denghiénne a de le spècje de cuppíne che la gerievànte é accussí i-addefreddàve..
Da la màcene ó saglievànte la farínne é la caníglje; da lu bjà díje ó saglíve pe l’uttànte pe sénte la farínne, pe s’i ate vinte la caníglje; da sélle tèndere settandasínche é vintasínche pe sénte.
U miéce a lu massètte é a la rócele a-gn-ave ‘na palétte che i servíve a recchítre la farínne che ó saglíve deffuóre.
Sétte a-éve ‘na fattíje che i fescíve lu muénne ‘nzènne a la màchene, accussí lu mulenàre i resaglíve tuttuàje a accuntantà lu cliènde.
Pe putàjere funziunà bunne é pe nun se cunsemmà, le rócele é lu massètte, dí vàje u màje, i venevànte bugiardà accussí i putevànte scafazzà megliàue lu bjà.
Ciàche mulínne i teníve un traínne che i geriàve pe le massarí pe ciargíje lu bjà de lò crestiànne é lu purtàve a lu mulínne; ‘na vàje macenà, i purtàve derríje farínne é caníglje é i veníve pajà.
Lò terrí mulenàre de Faíte ó sunte sta:
D’Ambrosio Paolo (Savrióne) che dappóje lu denàtte a Gallucci Gelsomino (Semíne de Gnicche) |
Pirozzoli Carmine (Carmenòtte) |
LU FURNíJE
Sélle de lu furníje a-étte vunne de lò mestíje mé viàje.
A Faíte ‘na muórre ó sevànte lò fuóre a pàglje.
La pàglje í veníve pràje denghjé l’àjere andó lò crestiànne i-avànte pesà é i veníve purtà dò lò ciúcce u fuóre.
Premmíje lu panne i veníve féje ‘ncase é purtà a quàje u fuóre.
Decchírre le fénne i-ulevànte patà lu giuóre appréje, i allevànte ce lu furníje che i descíve cante luànne ó servíve.
Premmíje de la miécennéje, lu furníje i passàve pe le case pe avvertíje che le fénne i putevànte abbijà a patà.
A le catte i passàve arríje é i descíve de scanà.
‘Na vàje scanà, lò ciste de panne i venevànte purtà u fuóre andó lu furníje i ‘mbezzàve lu fuà dò la pàglje.
Cumme la làmje de lu fuóre i fescíve biànge, ó veníve a disce che la temperattàure gli-éve gíste é lu furníje, dappóje pulezzà lu fuóre, i-abbiàve a ‘nfurnà panne, pizze, taralle féje da le fénne.
Lu furníje i requanescíve tutte le scanàte de lò crestiànne pettócche ciàche scanàte i teníve de lò ‘nzegnà pe lu putàjere quanàjere: spaccàte, caúte, sérchje…
‘Na vàje caccjà da lu fuóre, le scanàte i venevànte màje ‘nghiócche u bancúnne ó purtà a le case de lò crestiànne.
Lu furníje i pregníve pa ‘na muórre de sòlde pe fa lu panne, é spisse ó capettàve che i veníve pajà dò la pate du panne accussí i fescíve ate scanàte da vénne. Scanàte de mila culàue pettócche le farínne usà i sevànte pa tutte de la stéssa maniére é ualettà.
‘Na muórre ó sevànte le fénne védeve che i fescevànte stí mestíje pe putàjere campà é pe cràje lò fiàue.
La fattíje de lu furníje gli-éve pesànte é i cunsemmàve la vite devànne a la bucce de lu fuóre.
Lò fuóre che lò faitàre se arrucurdúnte ó sunte:
Palmieri Elisabetta (Cióffe/Pirozzoli Carmine) |
D’Onofrio Fedele (Schiappulàre) che a-éve lu fuóre mé viàje |
Pastore Nicola é Leonardo (Cacciuniélle) |
D’Aiuto Modesto (Munèste) |
Gallucci Ernestino |
D’Ambrosio Gennaro (Gennaròtte/Veggiòtte) |
Cocco Prospero (Rizzecòcche) |
Girardi Filomena/Marella Giovanna |
Simonelli Pietro (Blacchettònne) |
Pucci Antonio Montanaro Michele (Melòrde) Pavia Giovanni (Ciaràule) Antonacci Nicola (Casalburàje) Antonacci Nicola (Cencióne) Melillo Rosa (Furbíne) |
LU BARBíJE
A lò ténne de lò piarànne nóte ‘na muórre ó sevànte lò crestiànne che i fescevànte lu barbíje é la puttéja làue ó allevànte tutte quànte a parlà de pulíteche é de lò cunte de lò paíje.
Le paróle é lu penzíje de lu barbíje i i sevànte pràje ‘ma muórre ‘ncunsederazziúnne da lò paisàne pettócche i savíve parícchje cunte de lò crestiànne de lu paíje é i savíve tutte su che ó succedíve ‘nghjé lò paíje deccànne.
‘Nghjé la puttéje a-gn-evànte sule lò mòbbele mé necessàrje: a-éve ‘na ciambra fràjete é sémplece.
É ténne passà ‘na muórre de barbíje, nun sule faitàre, i fescevànte la fattíja làue avóje pe le case, i-allevànte ce lò crestiànne ricce dí vàje a la summàne pe fa la barbe é ‘na vàje a lu màje a fa lò pàje.
Lu barbíje i veníve pajà ‘na vàje a l’anne é pe ciàche rasattàure se pregníve pajà un mezzètte.
Lu mestíje du barbíje gli-éve delecà é deffícele é vunne pe se lu ‘mparà i-ava fa pe ‘na muórre de ténne lu descíbbule.
Lu quattrà, che i veníve pràje a la puttéje pe se ‘mparà lu mestíje, i-abbijàve a quafeíje pe ‘ntère dappóje ciàche tàglje de pàje, lu premmí rasàue che lu denevànte gli-éve sénze sfèrre é lu premmí a se fa fà lò pàje a-éve lu pattrúnne, la premmiéra lezziúnne a-éve ‘nzapunà la facce sénze fa allà lu sabbúnne ‘nghiòcche la bucce ó ‘nghjé les auréglje.
Appréje se ‘mparàve a fa la barbe dó un rasàue parteculàre: i teníve la secúre é gli-éve mé seíje.
A ló ténne passà lu barbíje i-affelàve le sfèrre de ló rasàue ‘nghiòcche le piére é dappóje i pregníve lu na de lu crestiànne, dó dò dàje, é lu ‘ngreccàve chiàne chiàne pe l’àrje, pe accunzà bunne lò mustàzze lunghe.
Pe taglíje lò pàje s’ava étre àbbele é précíse pessú lò premmíje a se fa fa lò pàje ó sevànte lòs ‘nfanne.
Premmíje lò barbíje i fescevànte avóje lu salàsse.
I fescevànte satre lu sanghe dò un tàglje féje dò ‘na sfèrra affelà. Dappóje lò crestiànne i-ante truuà ‘n’ate remmédje che a-éve sélle de la sanguètte.
Addúnche a-éve ‘na muórre fàcele a truuà le sanguètte deccànte a lò lòntre, le funtàne, lò uallúnne.
Le sanguètte se terievànte lu sanghe “pa bunne” che i purtàve le maladdí.
Lu salàsse i veníve féje da lu miédeche ma avóje da lu barbíje é da lò crestiànne che i tenevànte cache quanescénze de medecíne.
U giuóre d’aví, a Faíte a-gn-ante chjú lò barbíje é lòs muénne pe se fa lò pàje i-anta satre deffuóre é allà a lò paíje mé róue.
Lu cunte bri a-étte che jòre lò crestiànne, ricce é puriélle, gióne é viàje, se truúnte chjú ‘nzènne a sceglíje dí chiacchiere ‘nghjé la puttéje de lu barbíje.
Lò derrí barbíje che se arrecurdúnte ó sunte:
De Rosa Pietro (Petruccióne) |
Pascucci Nicola (Marceliàne) |
Gafafer Matteo (Chiuppètte) |
D’Ercole Giuseppe (Scaniòtte) |
Del Core Umberto (Lu Stagnàre) |
Maglio Ferdinando (Usscepriéste) |
Petitti Angelo (Pruzzelícchje) |
Cavoto Giuseppe (Cavòte) |
Capozzielli Carmine (Pegnàte) |
Grasso Arnaldo (Buttegliuózze) |
Pirozzoli Giuseppe (Peniélle) é sun fiàue |
Spinelli Domenico (Jèlle) |
D’Aiuto Ennio (Luiggióne) |
Melillo Antonio (Pesscialiétte) |
Marella Luigi (Scianariélle) |
Longo Francesco (Maste Francísche) |
Capozzielli Giuseppe (Gióse) |
Spisse cache barbíje, dappóje la fattíje, i sunàve cache stremménne a le féte du paíje pe teníje ‘narmuní lò crestiànne, cumme De Rosa Pietro, dò lò frare Maglio é D’Ercole Arnaldo. Del Core Umberto é Maglio Pasquale i fescevànte avóje le ténde pe le móce.
Lu barbíje Spinelli Domenico i fescíve avóje lò cernícchje, i ‘mbagliàve sègge é i-accunzàve lò cartellè. Longo Francesco i fescíve avóje lu dentíste.
LU MUÉNNE DE LE BUTTE
A-gn-atte un muénne che pe mestíje i fate ciuóse de bóue de tante mesírre. Sti mestíje ‘na vàje gli-éve ‘na muórre prateccà, jòre ‘nvéce a-étte n’are che mancúnne mé i quanàje. Pe fa ‘na butte ó ulúnte: sérchje de fére che i vante da lu mé róue a lu mé peccerílle é duve large u-miéce é mé stràjete a un cartíje é ‘n’ate.
Le duve, sestemmà ‘nghjé un sérchje de fére, i venúnte fatijà dò la cjà du fuà ‘nghiòcche andó ó vinte màje lu schéletre de la butte.
‘Na vàje che a-étte sta féje lu schéletre ó venúnte màje lò sérchje de fére. Dappóje la butte i vinte barrà a lò dò cartíje dò lò dische.
A-gn-ante assce de acciàje pe fatjià le duve, chiannuózze, taravèlle de parícchje mesírre, ‘nginne pe ‘nzegníje lò puènne, tràpene, un martéje pe assestà lò sérchje de fére é un màchene pe métte la résene.
Sti derrí stremménne i veníve ausà pe ‘nzegníje lu funne de la butte andó s’aunúnte le duve é lu funne de la butte.
A Faíte sti muénne i-accunzàve sule lò barrí, che i venevànte ausà pe purtà l’éje da la funtàne a le case, é le barríglje, andó a-gn-ave lu vinne é i venevànte ausà mé spisse da lò musceníje. Se arrecurdúnne de un buttàje ‘ndutte, Cerulli Antonio che i fatijàve pe la vi de la Funtàne.
LU BANNAJUÓLE
Lu bannajuóle a-éve vunne de selló mestíje che i-anemàve la vite du paíje; u gióre d’aví a-étte un mestíje che se quanàje chjú.
É tén passà lu bannajuóle, dò l’ajúte de ‘na trómbe ó de ‘n’ate stremménne, i menàve lu banne de lò cunte de lu Cumúne é avóje lò banne de lò crestiànne che i vennevànte cache ciuóse.
‘Nzíje a lò premmís anne du ‘900 ‘na muórre de crestiànne i savevànte né lire né scrire pessú ‘na muórre de nutízje é cunte de lu Cumúne ó de lò neuzijànte i venevànte denà da lu bannajuóle.
Spisse, pe le vi de Faíte, se sentíve lu bannajuóle. ‘Nzíje a la fine de lòs anne ’50 lu Cumúne se servíve de lu bannajuóle pe purtà a quanescénze le nutízje de la vite du Cumúne ó cache scadénze ó adempemménte.
Se ‘mpuntàve a ciàche zénne de vi, i sunàve lu tammuórre ó la trómbe, pe se fa sentíje da lò crestiànne, é, dappóje de dò ó tràje squille de trómbe ó rulle de tammuórre, i-alluccàve, faitàre ó dò la lénne de lòs ate paíje, a lò catte vénte, la nutízje che i-ava dennà.
Lò banne ó sevànte ‘na muórre. Selló de lu Cumúne é de lò uffícje ó sevànte lò mé ‘mpurtànte.
Sule u terríje i-alluccàve lò “cunsíglje pe accettà”: lu chianghíje che i vénne la céja tèndere a un còste ba, chi i vénne la frutte, lu vinne nóue ó lu viàje: se ve ulíje accettà lu vinne bunne aví allà a la cantíne de…
Lu bannajuóle du paíje lu mattínne i-alluccàve decchírre ó arrevàve lu mólafuórbece ó sélle che i venníve lò dra, i fescíve savàjere ‘nghjé u paíje se cacúnne i-ave perdí le chjà de ciallaúe, accussí chi le truuàve le putíve turnà u pattrúnne che lu rengrasiàve de cache maniére, ó pe fa savàjere che lu giuóre appréje, all’uffícje du cullucamménne, ó veníve denà la desuccupaziúnne a chi i teníve dràje.
Lò bannajuóle mé quanescí ó sunte:
D’Ercole Emilio (Meliúcce de Papóne) |
Mainieri Donato (Malepenziére) |
Di Gioia Giovanni (Lu Recísche) |
De Simone Paolo (Lu Fuggiàne) |
LE NEVIÉRE
‘Nghjé u paíje a-gn-evànte pa fràbbeche pe fa lu chiàtre, ma la vernàte ó juccàve ‘na muórre é ó fescíve ‘na muórre de jòcche. Addúnche se stijàve la jòcche é a premavére se venníve.
La jòcche i veníve stijà ‘nghjé a lò fuósse róue, le neviére, scavà ‘nghjé u terrínne ‘nghiòcche le tòppe mé àute. La mé quanescí a-éve sélle ‘nghiòcche u Santílle (Monte Cornacchia).
La jòcche i veníve ammuntunà é dappóje i veníve crevère dò ‘na muórre de pàglje accussí da la crevíje bunne tutte ciuóse.
‘Na vàje stijà i-adderàve a secónde de lu ténne che ó fescíve, mé fràje a-éve é mé i-adderàve.
U mumènte giste i veníve purtà u paíje dò mule é ciúcce denghiénne a balle róse ó ‘nghjé a cassce de bóue crevère dò sacche é pàglje, é purtà ‘nghjé la puttéje, a lò suttàne frische dò lu paumménne de battattàure.
Gli-éve cuntrullà da lò miéteche, ise i ‘nzegnevànte ciàche cassce é tutte le balle de russe ó de vérde pe cumme i-ava étre usà (‘nghjé a case ó pe ate cunte). La jòcche i purtàve ‘na muórre de sòlde pettócche lò paíje deccànte cumme Fògge, Manfredònje é San Sevíje i-avànte abbusènne é l’accettevànte da lò paíje peccerílle de muntàgne.
La jòcche i veníve venní a chile é pesà dò la statéle. La néja tarde i veníve purtà dò lò ciarréje é lò traínne ‘nghjé lò paíje deccànne.
Cumme un dí appremmíje, la mé quanescí a-éve sélle de Neússe, u Santílle. La jòcche gli-éve venní avóje da Regolo Finaldi. L’úneche che i venníve lò gelàte pe stó cartíje a-éve Savino Pasquale (Pérzechíne) che i teníve la puttéje andó a-gn-ave lu palàzze Finelli.
LU BRECCELÀRE
‘Na vàje, pe le vi du paíje, avóje sellé che i purtevànte deffuóre, se sbarcàve lu rappílle, ma lu funne gli-éve de piéra spaccà dò lu martéje. A-éve ‘na fattíja pesànte é díje. I fatijevànte spaccànne le piére dò tutte la fòreze che i tenevànte. A-éve un mestíje tra lò mé bri, la premavére i stevànte dessò u seruàje a spaccà le piére da lu mattínne a la néje, la vernàte dò la fràje é lu gèle.
Lu breccelàre, dò lu maténne é lu bónténne, i fatijàve tuttuàje ‘nzíje a decchírre ó cunghijevànte le piére da lu munzéje a mangínne é i pasevànte tutte spaccà a lu munzéje a la dràjete.
Spisse ó la piére gli-éve trí dírete ó lu martéje gli-éve pa bunne, é avóje se lu fatijattàue i quanescíve lu mestí sinne, ó ‘ngappàve che se fescíve mà é spisse ó saglíve lu sanghe.
Tutte lò breccelàre i tenevànte le manne stòrete é piàjene de calle, le quàjesce stòrete é ríggede pettócche i stevànte assettà pe tante àure, le rine piajà é lu cuórpe marturijà de delàue.
Lò breccelàre faitàre ó sunte sta:
Marella Michele (Pacciariélle) |
Cocco Antonio (Premavère) |
D’Agrippino Urbano (Rubàne de ‘Gnicche) |
D’Ambrosio Giovanni (Cacacíte) |
Di Gioia Giovanni (Lu Recísche) |
D’Ambrosio Luigi (Veggiòtte de Maddalène) |
Gliatta Giovanni (Uanníne) |
Grasso Raffaele (Buttegliuózze) |
La Vita Domenico (Merabbellàje) |
Pierro Nicola (Lióne) |
Zefilippo Salvatore (Lu Buvenàje) |
LÒ MESTÍJE DE LE FÉNNE
LA MASSÀRE
‘Na vàje, ciàche fénne, da decchírre gli-éve peccerélle, s’ava ‘mparà a fa tutte le facènne de la case.
La massàre i fescíve tutte lò servíje de denghiénne é de deffuóre la case, i pulezzàve la case, i crescíve lò fiàue, i fescíve a mengíje, i lavàve lò dra é i-allàve a fatijà ‘nghjé lò terrínne.
Lu premmí penzíje, cumme se auzàve, a-éve sélle de allà a jempíje l’éje a la funtàne pettócche a selló ténne ‘ncase a-gn-ave ginne.
Le fénne i fescevànte lu curdàje, se lu mettevànte ‘ntéte, i mettevànte lu barrí ‘nghiòcche é i-allevànte a la funtàne a jempíje l’éje.
Pe nun cére la fénne se mettíve le manne un cartíje é n’ate a lò fiànghe.
Pe fa lò servíje ‘nghjé a case ó abbusegnàve bunàriélle d’éje, allóre le fénne i-avevànta fa parícchje viàce a la funtàne é se i-allàve lu ténne pettócche a-gn-evànte tuttuàje ‘na muórre de crestiànne.
Ciàche fénne i-auardàve lu fíje sinne é spisse, decchírre i teníve pa lu ténne pe auardà, i lesciàve lu barrí a sélle che a-gn-ave devànne a jíglje é s’i-allàve.
Le fénne decchírre i-allevànte a prénne l’éje i sciarijevànte é se ‘mpeccevànte de lò cunte dé s’ate.
‘Na fénne che mancúnne se descòrde a-étte “zja Paulíne”, che i-allàve ulentíje a prénne l’éje a chi i putíve pa allà, pe avàjere un piézze de panne. I-allàve a la funtàne parícchje vàje dò un barrí ‘ntéte é dò dessò lò bra.
Ciàche chiénze giuóre la fénne i-allàve u allúnne ó a la funtàne a lavà lò dra.
Pe lavà lò dra s’ava fa lu sabbúne, se mettíve lu ciarúnne ‘nghiòcche u fuà dò denghiénne un piézze de réje, la saíme é ‘na ziche de uàjele; na vàje scagljà se mettíve la sindre.
Lu sabbúnne i veníve màje a ferrà ‘nghjé a de le casscètte de bóue; ‘na vàje fràje i veníve tagljà dò lu spave ó dò lu cuttéje.
Jempí lu ciste de dra é pràje lu sabbúnne la fénne i-allàve a lavà a la funtàne.
Decchírre ó tucciàve a jíglje, la massàre i-abbijàve a ‘nsapunà lò dra; se i sevànte pa ‘na muórre spuórche i venevànte sule sciacquarijà, sennú i turnàve a ciallàue pe preparà la bijà.
La bijà i veníve ausà pe luuà la uantíme a lò dra é pe lò ‘ncenetíje. Se preparàve ‘nghjé a dí maniére.
Dappóje cache giuóre, la massàre i-allàve ‘n’ata vàje u allúnne pe sciacquaríje lò dra, póue se a-éve vernàte lò mettíve a ascíre deccante u fuà é se a-éve premavére a seruàje ‘nghiòcche le ròcchje.
‘N’ate servíje che i-ava fa la massàre a-éve sélle de fa a mengíje.
Lu cunte che ó ava pa mancà a-éve la farínne che se fescíve u mulínne macenànne lu bjà.
Ciàche giuóre la massàre i teriàve la làvene, dò la farínne, lòs ije, l’éje é la sa, pe fa tagliulíne, sfòglje, cecattiélle, recchietèlle, sdréncule.
Lò maccarúnne se quaivànte ‘nghiòcche u fuà ‘nghjé u ciarúnne de arànne, appenní a la cattàjene, se mengiàve ‘nghjé le spase de créte é a-gn-evànte tràje tipe: la spasa róse, la miéce spase é la spasètte.
‘N’ate cunte che ó ava pa mancà a-éve lu panne.
Se patàve ciàche chiénze giuóre, lu númmere de le scanàte i depenníve da cante crestiànne a-gn-evante ‘nghjé la famíglje.
Un giuóre premmíje, la massàre i-allàve u fuóre a disce che i-ava patà é lu furníje i descíve decchírre i-ava allà: u premmíje, u secónde ó u tèrze fuóre. Lu luànne i veníve pràje u fuóre ó ce cache vecenà che i-ava avóje patà.
Appremmíje de patà se fescevànte parícchje cunte: dappóje mengjà, se averiàve la méje é i serníve la farínne dò lu sijà pe díje ó traje s’àure pe la fa satre mé biànce.
Pe fa satre lu panne mé cenéje, la massàre i mettíve le patàte: premmíje le scautàve ‘nghjé u ciarúnne ‘nghiòcche u fuà é póue, decchírre i sevànte quàje, le pelàve é le scafazzàve do un cartellè.
‘Nghjé u fratténne la massàre i-ammachiàve la farínne a lu luànne, i fatijàve dò le manne, é chiàne chiàne i mettíve l’éje pe fa scaglíje lu luànne.
‘Na vàje preparà la pate, la massàre la crevíve dò ‘na mappíne é lu mettíve a apuleíje ‘nfàcce u fuà.
Pe le díje, le tràje du mattínne, lu furníje i passàve pe le case de le massàre pe disce che i putevànte abbijà a patà.
La massàre i-abbijàve a patà pe cirche dís’àure; ‘nghjé la méje, i patàve la farínne, patàte, luànne é sa, dò lò pinne é ciàche tanne i menàve l’éja ciàte.
Decchírre i-ave cunghjí de patà, dò la manne i fescíve la cruàje ‘nghiòcche la pate, la crevíve dò un cince bianche é póue i barràve la méje dò lu cuéchje é i mettíve la chevèrde de lane ‘nghiòcche.
Dappóje la furniére i passàve pe le case a disce che i-avànta scanà.
La massàre dò la pate i fescíve le pizze é le scanàte, é i lescevànte ‘na pare pe fa lu luànne.
Le scanàte i venevànte accarauugljà ‘nghjé lò ciaríje, i venevànte màje ‘nghjé lò cestiélle é i venevante purtà u fuóre.
La fénne i preparàve avóje la strazzàte, la pizze dò le cíccule é sélle dò la saíme, ‘nghjé le stagnère i mettíve le pizze de pumpedòre, é le purtàve u fuóre. Stéje ó sevànte le pizze pe lòs ‘nfanne.
La pizze se mengiàve lu giuóre stésse, lu panne se mettíve ‘nghjé la méje é se mengiàve lu giuóre appréje.
La massàre s’ava màje abbandunà, i-ava penzà a ciàche ciuóse é i-ava fa lò sacrefíce, pe teníje auní la famíglje. Sellé fénne i sunte ammerà da le fénne de jòre che i-ulerànte étre cumme a ise.
LA FÉNNE DE LA CAMPÀGNE
La campagnòle i fatijàve lò terrínne é i cuurnàve lòs anemà.
La fattíje i-abbijàve lu mattínne prèste decchírre la fénne i-allàve a la stalle pe curnà lòs anemà é pe trére ciévere é vacce.
‘Na parzziúnne de léje lu vennevànte é dò ‘n’ata parziúnne i fescevànte lu case.
Lu case i veníve féje ‘nghjé lu quacquaróne, é a lu léje se mettíve lu càje pe caglíje.
Decchírre gli-éve prónte, se rumpíve la cagljàte, se mettíve ‘n’ata vàje ‘nghiòcche u fuà, é, ‘na vàje ‘nciatà, i veníve màje ‘nghjé le fescèlle dò la scumarèlle, pe luuà la letà.
Se ‘nciatàve la letà che ó arrumagníve ‘nghjé lu quacquaróne é se fescíve la reccòtte.
Dappóje se salàve lu case é se mettíve a ascíre.
Passà chiénze, vinta giuóre i veníve lavà dò la cite é lu uàjele é se fescíve cunghíje de ascíre.
Lu casecavàlle se fescíve de ‘n’ata maniére.
La campagnòle póue i-ava fatijà lò terrínne.
La vernàte i-ajutàve a su marí a ciareíje lu bóue.
La premavére i pulezzàve lò terrínne, i-ammunnàve, i sappàve lu bjà.
Tra avríje é lu màje de màje la fénne i piantàve sise, fasúle, gése, pesílle, patàte, pumpedòre, puparúle, biaíndele.
Lò màje appréje i cheglíve sú che i-ave piantà.
A uttóbbre se aràve lu terrínne pe semenà, la fénne i-ava rumpe le témpe dò la sappe.
A decémbre é jennàre se tijàve lu cajúnne é la fénne i stave ‘nfacènne; i-ava pulzà le trippe é i-ava fa lu suffrí.
Pe fa lu suffrí, ‘nghiòcche u fuà, ‘nghjé lu ciarúnne se mettíve l’ulà, lu cuóre é lu permúnne du cajúnne, póue le patàte é lò puparúle dessò la cite
‘Na vàje quàje, i veníve luuà da lu ciarúnne é i veníve màje ‘nghjé la spase.
É ténne passà se ausàve mengíje fèlle de panne sfrí deghjé la saíme du suffrí: lò panúnte.
Lò giuóre appréje le fénne i fescevànte sausícchje, suppressàte, summe, capecuólle, presútte é se fescevànte ascíre deccànte u fuà.
‘N’ausànza faítare che a-gn-atte avóje aví a-étte sélle de ‘ntarrà la sausícchje dessò la saíme ‘nghjé lò vasètte de créte.
LA VAMMÀNE
‘Nzíje da lò ténne antíche la nàsscete de lòs ‘nfanne i-avíve a che fa sule dò le fénne; a-gn-ave é a-gn-atte, ancóre jóre, ‘na cumplecettà é ‘na cullaburaziúnne da le métte u céntre de sti cunte accussí béje. La fénne i vinte ajutà, ‘ncuraggjà é cunfurtà da les ate fénne, mé de tutte quànte da la vammàne . ‘Na fénne che gli-é quanescí ‘nghjé tutte lu munne é attuórne a jíglje a-gn-atte ‘n’àrje de mestère.
La vammàne i-ava quanàjere le “medecíne”, i-ava étre calme, attiénte, úmele, ‘nteleggénne é i-ava pa avàjere pàue, pettócche i-assestíve la fénne nun sule decchírre i-accettàve ma avóje decchírre i stave pabbúnne.
Póue i-ava ‘ncuraggíje la fénne che i-ava accettà “l’ava assecherà che ó stave succedànne rénne, é a sélle che i-accettàve pe la premmjéra vàje é che i savíve pa cumme a-éve, i descíve che decchírre ó abbijevànte le delàue, i-ava tratteníje lu jàte é i-ava bettà”. A lò ténne passà se accettàve ‘ncase é decchírre ó abbijevànte le delàue, se chiammàve la vammàne, la mare, la dóne, le seràue é cache vecenàte.
Le fénne i preparevànte lu fuà é i mettevànte a bitre ‘na tièlla piàjene d’éje che i servíve pe lavà le ‘nfanne é la mare. La vammàne i fescíve métte la fénne ‘mpizze ‘mpizze u líje dò le quajesce appujà ‘nghiòcche a dí sègge. ‘Na vàje accettà, la vammàne i tagliàve é i-astacciàve la ‘mbríglje; i lavàve le ‘nfanne dò l’éje é lu biànche de l’ijà, ‘nghjé lu bascíje andó i-ave màje lò sòlde. La facce i veníve lavà dò un púue de vinne é un púue d’éje; u terríje i vestíve le ‘nfanne. Le ‘nfanne appéne nescí i veníve ‘nfescjà ‘nzíje a decchírre lu piézze de la ‘mbríglje i secciàve é s’i ‘nzumbàve. Pe nun fa prénne a maluócchje le ‘nfanne, ‘nfacce la magliètte de dessó, se mettíve l’abetíne. Se mettíve la feírre de S.Antónje é sélle de la Madònne de lu Càrmene, un pezzariélle de mante de la Madònna ‘Duleràte, tràjes àcene de bjà, tràjes àcene de sa é tràje petròccele ammasà ‘nghjé u allúnne.
Súbbete appréje la vammàne i lavàve avóje a sa mare. La secóne i veníve màje ‘nghjé ‘na tuuàglje é i veníve purtà u allúnne da ‘na fénne de famíglje. I veníve màje dessò ‘na piéra róse pe nun la fa mengíje a lòs anemà. La vammàne dappóje accettà i-allàve avóje lòs ate giuóre a lavà le ‘nfanne é la mare; pe nun fa prénne ‘nfezziúnne, s’ausàve éja begljí. Le fénne de la case i jempevànte dí buttíglje d’éje, la mettevànte ‘nghjé un ciarúnne piénne d’éje é le mettevànte a bitre, póue la fescevànte addefreddà é la fescevànte truuà a la vammàne decchírre i-allàve. Le vammàne che i-ante fatijà a Faíte, ‘nghjé la secónda metà du mileéscissénte, ó sunte sta:
- Elisa Salterio che i-a féje ‘na muórre de battéseme a lòs ‘nfanne che i reschievànte de muríje.
- Chiara De Penna
- Maria Ventura che i fatijàtte lò derrí dise anne du mileéscíssénte.
Da la premmiéra metà du mileéséttessénte ó fatijerúnte:
- Diana Pastore
- Lucrezia Cavaliere
- Lucrezia Campanelli
- Giovanna Pastore
- Elisabetta Benedetto
- Vittoria Melillo
- Teresa Panzone
- Colomba Bozzelli
- Caterina Rucci
Tràje de ise i sevànte de Faíte.
‘Nghjé u mileévíttesséntesettantannúue lu Cumúne i denàtte lò sòlde a:
- Filomena Fraganato de Faíte pe se pré lu deplòme de vammàne a l’Uneversettà de Nappe.
‘Nghjé u milenussénteévunne se putevànte fa le dumànde da vammàne ma mancúnne la fescítte pettócche i pajevànte púue allóre lu cúmune i pensàtte de aumentà la pàje da cattessénte a sinchessénta lire.
Dappóje ó respunnerúnte parícchje crestiànne é i venchítte Agostina Passerini.
‘Nghjé u milenussénteéttràje ó fítte numenà Lucilla Berardi.
Fine u milenussénteévítte la vammàne ó fitte Adele Vitali.
Dappóje ó allàtte Francesca Arancini.
‘Nghjé u milenussénteétrése a-étte sta numenà vammàne Vittorina Passerini.
‘Nghjé u milenussénteésése i-accupàtte lu pòste de vammàne Emma Balzotti.
‘Nghjé u milenussénteédecennúue ó statte Francesca Bononi.
‘Nghjé u milenussénteévínte ó fitte Lettiera Spadaro.
‘Nghjé u milenusséntevintattràje a-étte sta numenà cumme vammàne Maria Giuseppina Morgese.
Lò nunne de le vammàre i sunte sta pràje da lu lívere de Don Maurilie De Rosa “Il borgo natio”.
Da lò stúdje féje ‘nghiòcche u cumúne, se disce che ‘nghjé lòs anne trénte a-étte sta numenà vammàne Roma Motta che i veníve de Imperia é i fatijàtte ‘nzíje u milenusséntesencantiúnne.
‘Nzènne a sta fénne ó allàve tuttuàje Antonina Savino.
‘Nghjé lu stésse anne a-étte sta numenà Luisa Minguzzi.
Pe la fine du milenusséntesencantattràje a-étte vení Carmela De Muzio.
‘Nghjé u milenussentesencantaccàtte a-étte sta numenà Didima Pancaldi.
‘Nghjé lu stésse anne a-étte sta pràje Virgilia Miliardo.
U milenusséntesencantassínche a-étte vení Carmela Troiano.
Dò la delíbbere númmere catte de lu decevítte de màrese melenusséntesettantacàtte a-étte sta apprúua la lequedazziúnne de Troiano pe tutte lòs anne che i-ave fatijà da lu milenusséntesessantattràje a lu milenusséntesessantavítte.
Le vammàne che i fatijevànte pe lu cumúne i pregnevànte ‘na pàja fisse, ma decchírre i fescevànte accettà cache fénne se pregnevànte avóje pajà da la stéssa fénne.
‘Nvéce a-gn-à chi i disce che la vammàne i veníve pa pajà da lò crestiànne.
La delíbbere númmere vitte du milenusséntesessantasètte i nómene vammàne Maria Marcella Turillo.
Dò la delíbbere númmere núue du milenusséntesettànte i metterúnte a fatijà Chiara Circiello. La delíbbere númmere sessantavítte du milenusséntesettantaddò i nòmene Anna Maria Bernardini.
La delíbbere númmere vintassètte du milenusséntesettantattràje i prénne ‘n’ata vàje a fatjà a Carmela Troiano cumme vammàre de Faíte é Castellícce V.M.
La delíbbere númmere tréntannúue du milenusséntesettantaccàtte i nòmene Vincenzella Di Brina.
Da lu settànte le fénne i-abbijerúnte a allà a Fògge pe fa nétre lò fiàue, fòrse pettócche le vammàne i-arrumagnevànte ‘nghjé u paíje pe púue de ténne é lu pòste spisse i-arrumagníve vaccànne.
Se cache fénne i-ulíve accettà a ciallàue i chiammàve a la vammàne Troiano che i fatijàve avóje se i pregníve la penziúnne.
Lu derrí ‘nfanne che i-atte fé nétre Troiano a-étte sta Matrella Antonio lu vintasscíje de màrese du milenusséntasettantasscíje.
A decèmbre de lu stésse anne la vammàne i murítte.
LA SARTE É LA RECAMATRíCE
Lu mestíje de la sarte a-éve vunne de lò mé béje che le fénne i fescevànte é ténne passà.
La sarte i tagliàve, i cusíve, i-arrecammàve é i ‘mparàve lu mestíje a le fíglje.
Ó sevànte tanne le fíglje che i-allevànte ci la sarte pe se ‘mparà a teníje l’íglje a le manne.
Le fíglje i purtevànte ci la sarte ’s íglje, tijà, cappúlle, punteruóle, cuttóne, tagliànne, furbecètte, matàsse.
La sarte (zjà maéstre, cumme la chiamevànte le fíglje) i veníve pajà dò lu scange a mèrce (a biaíndele, a bjà, farínne) ó a fattíje, sule cache vàje dò lò sòlde. Lu paimménne a-éve lu stàglje.
Le fíglje i stevànte attiénte attiénte a cumme la zjà maéstre i fescíve pa pe pa lu vestíte é a tócche i descíve ménne che i fatijàve. Averamménne le sarte é lò sarte ‘na muórre de vàje i tenevànte gelusí de lu mestíje làue é i-accuntúnte che i taglievànte la ròbbe decchírre le fíglje s’i-allevànte.
Lò crestiànne che se ulevànte fa cutre un vestíte i-allevànte appremmíje a accettà la ròbbe ci zjà Lenúcce la castruccése ó ci zi Giuuànne de Fasàne che i teníve lu fúneche é i venníve la ròbbe a mètre; mé premmíje ancóre ci Preziúse, Basíle, Felebèrte.
La sarte i pregníve le mesírre dò lu gésse da tàglje ó dò ‘na scarde de sabbúnne é i-abbijàve a taglíje la ròbbe. Appremmíje la sarte i ’mbastíve: la sarte che i savíve lu mestíje i cusíve sénze ‘mbastíje; a-gn-evànte sarte che premmíje de taglíje i fescevànte lu muódele é selléje che i fescevànte lu deségne dò lu sabbúnne é póue i taglievànte a mane líbbere.
Lu vestíte ‘mbastí se fescíve pruuà é, se i-allàve bunne, se putíve cutre é póue refeníje dò pertóse é bettúnne, u derríje se steriàve dò lu fére a ciarbúnne; se lu vestíte i fescíve cache deffètte s’ava pruuéde a l’accunzà.
Le fíglje ci la sarte se cusevànte avóje lu curréde: lenzíje, tuuàglje, mutandúnne, saccúnne, mataràsse é ate dra pe lu matremmónje. Le ròbbe i sevànte de line, pèlle d’uóve, téla ólànde, muselíne, telóne, panamíne.
Lu curréde i veníve appréje arrecammà dò deségne de fiúre, fòglje, frutte.
S’arrecammàve ‘nghiòcche lu telíje de bóue andó se allargiàve la ròbbe da recammà.
Se fescíve lu punte a giòrne sémplece teriànne lò fíje é mettannelló a mazzètte de catte ó sínche é lu punte a giòrne fatijà (lu gegliúzze, lu punte quàdre, a nòcchètte, a serpentèlle); se fescíve lu punte palestríne, a catenèlle (punte marghéríte), piattèlle, ròdi, punt’ómbre, punt’èrbe, punte pisa, punto piénne; se fescíve avóje lu langhè (smèrle, rentàglje), lu sfilàte seceliàne, lu recàme a rinascimènte.
La ròbbe pe reccàme a-éve la tàila biànce, lu line é la cànepe ó vamacégne (biànce ó écrú, mé grézze). A ténne de uèrre se pregníve avóje la ròbbe de sàje de paracadúte pe fa vestetíne pé s’ enfànne, cache ciuóse pe arrecammà a punte catenèlle é de lu paracadúte se terievànte lò fíje pe cutre.
La sarte i cusíve é lu vestíte da zite de rase (un còrpètte dò ‘na unnèlla arreccjà a tràje pante é refení de bettunílle, pizze é merlètte). Éve la dóne de la zite che i cummannàve lu vestíte a la sarte é l’allàve a cutre avóje a ciallàue de la zite.
Dò lu ténne le fíglje i sunte chjú allà a recammà avóje pettócche lu cunte arrecammà i veníve trí ciére.
A Faíte a-gn-evànte avóje sarte muénne pe ‘s muénne.
Lò sarte é le sarte faitàre ó sunte sta:
Carosielli Caterina (Passannànte) |
Petitti Michelina (la pagliére) |
Pirozzoli Giovanna (Surdatèlle) |
Maiocco Aurelio é sun pàjeProspero (Majòcche) |
Maiocco Fedele (Majòcche) |
Antonelli Luigi (Preutàcchje) |
Benedetto Leonardo (Nardíne lu Senecòtte) |
Cerrato Pasquale (Cassciàre) |
D’Onofrio Antonio (Schiappulàre) |
Ricci Sandella (Santélle) |
Gliatta Filomena (Uanníne) |
D’Aulizio Rosa (Rusenèlle de Buózze) |
Gallucci Antonia (Surdatèlle) |
De Simone Ida é Annita (Branghetiélle) |
Minichiello Amalia (La Ruttése) |
Falco Severina (Stóppe) |
Rezzolla Carmela (La Urzarése) |
De Rosa Attilia (Pezzatèlle) |
Maiocco Chiarina (Majòcche) |
Salvati Antonio (‘Nduníne de sausícchje) |
Montillo Giovanni (Pérzéchíne) |
Spinelli Vincenzo, Michele, Pasquale (Jèlle) |
Forchione Giovanni (Lu Cumuníste) |
Monaco Angelo (fiàue de la Róssce) |
Santosuosso Filomena (Quarantòtte) |
Cecere Vincenzo |
Zjà Attílje De Rosa étte sta vunne de selléje che i savíve mé bunne arrecammà.
FATTÍJE É FÉRE
A vernàte, che le fattíje de deffuóre i stevànte pa, le fénne de Faíte se truuànte ’nzènne, jòre a ’na case jòre a ‘n’ate, a fatijà é fére ‘nfacce u fuà.
I fatijevànte la lane é la lanètte, la lane de pécure felà de le viéglje. Dappóje felà se fescevànte le matàsse dò lu manganiélle.
‘Na fénne che i savíve fatijà é fére a-éve mamma Lèzze.
Pe tentà la lane s’ausàve lu cuócchiele de nuàje che beglí denghiénne a l’éje i denàve ’na culàua marrò.
Dappóje che gli-éve sta lavà é màje a ascíre, la lane se fatijàve é fére, de tutte le mesírre che s’accettevànte ó se fescevànte dò lò fére de ‘mbrèlle.
Dò lò fére se fescevànte màglje, cauzètte, màglje pe dessò, sciàrpe, scazzètte é avóje scialletiélle, chevèrde, tuuàglje é céntre.
Le fénne faitàre i fatijevànte dò lò sinche fére peccerílle le cauzètte pe tutte la famíglje.
A-gn-evànte a Faíte fénne che i fatijevànte é fére pe fattíje, cumme a zjà Flumène de Gióvinézze.
Pe fatijà é fére ó uótte pasiénze, fantasí é ablettà.
LE FÉNNE CHE I–ALLEVÀNTE A LAVÀ
Ó sevànte fénne férme é majàteche, dò le manne róse é arruunà de l’éja fràjete. A Faíte a-gn-evànte fénne che i-allevànte a lavà lò dra de lò ricce é s’accuntentevànte de púue.
Le fénne i-allevànte a lavà u uallúnne ché ténne ó fescíve ó fescíve, ‘ngelugnà pe ‘ntère.
I purtevànte lò dra u uallúnne é, dappóje passà dí vàje lò dra dò lu sabbúnne (i sciavevànte) é sbattí ’nghiòcche le piére, ’nzapunà se lò purtevànte a la case; póue i mettevànte lu ciarúnne ’nghiòcche u fuà, ó beglíve l’éje é i-abbeijevànte a ’ncandarà lò dra (la bijà: manu mane i menevànte l’éja begliènte ’nghiòcche lò dra). Lu derríje che se ’ncandaràve i mettevànte un ciaríje ’nghiòcche la còfene; dappóje i capevànte la sindra biànce du fuà, la sernevànte ’nghiòcche é i menevànte l’éja begliènte ’nghiòcche la sindre. A-éve la sindre che i biancijàve lò dra. L’éje che se cacciàve deffuóre de la tenèlle éve lescjà (éje, sabbúnne é sindre) é dò la lescjà se lavàve la lane pe la sgrassà.
Lò fescevànte sta a bagne la nuttà, un giuóre un giuóre é miéce é póue i-allevànte a lò schiaríje lu mattínne prèste u allúnne a cape de l’éje. ’Na vàje schiarí lò dra bé béje lò mettevànte a sténne, gentíle, ‘nghiòcche a l’èrepe, le ròcchje.
A-gn-evànte fénne che i-allevànte a lavà lò dra ‘ncase: ‘nghiòcche lu streculattàue i struculevànte lò dra de line, de cànepe, de cuttóne.
Le fénne i-allevànte a lavà lò dra avóje a le funtàne.
I struculevànte, i lavevànte, i stennevànte é se mettevànte a sceglíje chiàcchiere dò les ate fénne: se descíve chi éve nescí é chi éve mòre, chi i fescíve la mala fénne, chi s’i-éve allà de Faíte, chi gli-éve turnà de la uèrre ó de la preggiuní.
La fénne che i-allàve a lavà i stave tuttuàje alliégre é i ciantàve, sule ó ‘nzènne de les ate fénne.
S’arrecurdúnte:
Ruotolo Paolina |
D’Ercole Rosina (Papóne) |
Palmieri Rosa (Rusenèlle de cióffe) |
Gallucci Leonarda (Carluccèlle) |
LA PETTENATRÍCE
‘Na vàje le fénne mé ricce se fescevànte fa lò pàje da les ate fénne, a paimménne.
La pettenatríce i-allàve case pe case a fa lò pàje a lò crestiànne: i tagliàve é i fescíve la téte; dennànne avóje cache cunsíglje de cómme ‘na fénne s’ava pettà.
Pe fa lò pàje la pettenatríce i usàve tagliànne, pettenésse, mullètte, frettíne é avóje de le pinze che ‘nciatà i-allesscevànte ó i-arreccevànte lò pàje.
La fattíje gli-éve ‘na muórre pesànne pettócche la pettenatríce ‘na muórre de vàje i-ava fa la téte a le fénne che i purtevànte ‘na muórre de pàje lunge é s’ava premmíje urdenà tutte quànte fesciànne la trézze é dappóje s’ava teríje ‘nghiòcche dò lò frettíne é le mullètte.
Geriànne case pe case, la pettenatríce i fescíve la téte é i-allàve desciànne tutte lò cunte de lò crestiànne che denghiénne ‘mpúue de ténne se savevànte denghjé tutte lu paíje.